Ipotesi sul fas.

 

Abbiamo passato in rassegna le principali etimologie del fas, e abbiamo trovato un convincente significato del termine in "luce", intesa come "parola che è legge divina". D'altra parte Georges Dumézil (1969), è dell'opinione che "La radice indoeuropea dhe, porre, ha dato luogo in indoiranico e in latino a molte parole dal valore unicamente o occasionalmente religioso, le quali però non coincidono né per forma né per senso. La più importante, in latino, è la parola fas, giacché infatti tale è la sua etimologia più probabile, essendo la derivazione dalla radice di fari "dichiarare" solo un gioco di parole che aveva già sedotto antichi eruditi. Qualunque cosa si sia spesso detto, fas non è un diritto divino sovrapposto al diritto umano, ius. Le due nozioni non sono omogenee: fas è propriamente il fondamento mistico, nel mondo invisibile, senza il quale tutti i comportamenti imposti o autorizzati dallo ius, e in senso più  generale tutti i comportamenti umani, sono incerti, pericolosi, cioè fatali. Il fas non è suscettibile d' analisi, di casistica, come ius: non può essere particolareggiato, così come non si declina il suo nome: sotto i differenti iura esso resta identico e la sua essenza si confonde con la sua esistenza: fas est, fas non est. Un tempo, un luogo, sono detti fasti o nefasti a seconda che diano o non diano questa necessaria base all'azione umana". Il concetto di "base", "fondazione" lo ritroviamo nel ius fetiale e nel sostantivo foedus.

Secondo F. Rendich (2010), tuttavia, "Le radici dha e dhe erano entrambe composte con la consonante d, che significava luce...e con la consonante h che significava spostamento...Il composto dha significava pertanto portare il fuoco, ovvero istituire sulla terra la legge divina mediante il posizionamento di un fuoco sacro". In latino il composto dh diventerà f.

Pare che il significato di fas inclini verso la spiegazione di Rendich, posto che anche la consonante d, nelle radici dha e dhe, indica la parola luce. Di qui la parentela tra la radice dhe (o dha) e la radice bhas che significa splendere. Abbiamo quindi il significato di fas come "parola" o "manifestazione splendente" che è legge divina, e che, al limite, fonda l'universo. Siamo convinti, infatti, che il fas altro non sia che la luce primordiale che ha dato origine a tutte le cose, la parola vivente in sé stessa.

La giustizia umana aspira a realizzare un perfetto equilibrio tra le parti in lotta, e cerca di imitare la legge divina, che potrebbe avere struttura ternaria, come già abbiamo detto a proposito della Triade non ufficiale Giove-Marte-Venere, dove i tre dei rappresenterebbero i colori della bandiera italiana: Giove il bianco, Marte il rosso e Venere il verde.  

La legge divina, fas per i Latini e Temi per i greci, ha infatti la caratteristica di realizzare un equilibrio tra due elementi confliggenti, che trovano in uno stato neutro la loro composizione. I Romani non ci hanno tramandato miti cosmogonici, ma è forse possibile trovare nelle loro Triadi religiose (Marte-Giove-Quirino e Giove-Giunone-Minerva) il principio del fas. Sono convinto che queste costruzioni teologiche vadano oltre il significato puramente politico-sociale, per alludere a qualcosa di più alto e arcano, l'origine e l'equilibrio del cosmo. 

Vediamo che in tutte e due le Triadi è presente Giove, associato al Cielo, all'aria come elementi neutri. Giove rappresenta  non solo la stabilità dello Stato, ma anche l'ordine del cosmo e la Giustizia, la fedeltà ai patti. Nella struttura ternaria di cui parlavamo, esso incarna l'elemento neutro e, quindi, in associazione con altri dei, il fas stesso. 

In verità, osserviamo che la conciliazione degli opposti nella Triade capitolina sembra impersonata da Minerva: se il Cielo è Giove e la Terra Giunone, Minerva, nome correlato alla radice men (da cui mensis, mens, memoria), potrebbe indicare la "misurazione, collegata all'idea dell'uomo pensante...Minerva è la Dea ordinatrice che dà struttura armonica ed equilibrata al cosmo"  (P. Galiano, M. Vigna 2013). Peraltro, va aggiunto che la sfera di competenza degli dei non è esclusiva: si ritrovano le stesse funzioni in più divinità, sia maschili sia femminili.

Più facile, a prima vista, è l'interpretazione della Triade regia Giove-Marte-Quirino: qui Giove potrebbe rappresentare, in qualità di ordinatore del cosmo e detentore della sovranità suprema, il principio neutro; Marte simboleggerebbe il movimento (o la guerra) e Quirino (Romolo divinizzato), la quiete ( o la pace). Si ripresenterebbe la simbologia dei tre colori: Giove il bianco, Marte il rosso e Quirino il verde, come sono verdi i campi da cui i Quiriti traggono il loro sostentamento come agricoltori. Ritengo infatti che l'etimologia di Quirites sia co-virio,  indicante una comunità di uomini; si dà il caso che la radice di uomo vigoroso e virtuoso (vir), sia la stessa di viridis, verde, nel significato traslato di fiorente, pieno di energia e di salute; inoltre le Virites erano divinità associate al culto di Quirino. Anche il sostantivo vis (g. pl. virium) indica vigore, forza, energia.

Con tutta probabilità ha ragione Dumézil, quando dice che il fas e il ius sono due nozioni non omogenee, e che il fas non può essere sovrapposto come diritto divino al ius, diritto umano. Il ius è propriamente il "movimento" dell'uomo che tenta di avvicinarsi al fas ed attuarne nelle relazioni sociali quella neutralità che ne è tipica. Ciò avviene non solo in ambito strettamente giuridico, ma in tutti i rapporti generalmente umani, come quelli, ricordati da Bettini, fra madre e figlia. Questa "unione" tra fas e ius, porta però con sé la conseguenza che la religio stessa, alla quale appartiene il fas, entri a far parte del ius medesimo: la giuspubblicistica romana conta trattati De religionibus, e anche  Varrone, nei 16 libri delle sue Antiquitates rerum divinarum, si sofferma a parlare de Diis. I Romani erano convinti che il ius attuasse la giustizia, e non a caso Ulpiano, in D. I 10,  dice che Iuris prudentia est divinarum et humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia.

Il ius sarebbe dunque la conciliazione degli opposti tra mondo umano e mondo divino, conciliazione basata sull'uomo: concezione che potremmo definire appropriatamente antropocentrica.

Ed è perciò che il fas, entità che, nel modo in cui l' abbiamo descritta, potrebbe apparire lontanissima ed ineffabile, in realtà è vicina: Cicerone diceva che la civitas è una dimora comune a uomini e dei.

 

 

Ius e fas

 

Dopo l'analisi degli etimi e del significato dei due termini in questione, proviamo ad istituire un confronto, allo scopo di individuare il rapporto esistente, fra di loro.

Ricordiamo per la comodità del lettore che ius viene da iu (andare trattenendo, aggiogare, unire), mentre fas è collegato a bhas, "splendere". 

Il ius evoca quindi il concetto di "unione" con il fas, poiché questo vocabolo significa "luce", equivalente a "parola come legge divina". 

Quindi, anticamente, il ius stava a significare l' "unione con la legge divina", o, se preferiamo, l'unione dell'uomo con dio. La parola chiave della cultura romana è ius, e questa parola ( "sospesa tra umano e divino" come dice A, Schiavone), indica il vincolo con il mondo divino. 

Quali sono le conseguenze di quanto abbiamo esposto ? In primo luogo che non esiste una netta distinzione fra uomo e dio, in quanto il ius fa da tramite fra realtà umana e realtà divina, a tal punto che spesso fas viene reso dalle fonti latine con ius: lo abbiamo visto nel grammatico Servio, quando parla di fas come iura divina in contrapposizione al ius, iura humana. Secondo Cicerone "Ciò che Giove stesso sancì, per la salute dello Stato è da ritenersi legittimo e giusto. Infatti la legge null'altro e che la regola ricavata secondo rettitudine e volere degli dei...sia nel diritto divino che in quello umano hanno rilevanza la natura e la legge...la regola naturale, che è legge divina e umana". Commenta A. Braccio (1989): " Nella costruzione ciceroniana pertanto fas e ius vengono a fondersi in uno ius naturale che comprende norme di origine divina e norme di origine terrena".  Ed io aggiungo: la natura farebbe qui da ponte tra tra queste due sfere che, per quanto sembrino opposte, in realtà non lo sono affatto: come vedremo in un post successivo, infatti, gli dei non sono altro che i principi agenti nelle cose naturali e negli stessi uomini.

Ma torniamo al concetto di "unione". Il diritto unisce l'uomo a dio, e lo fa diventare iustus, ovvero "colui che si è unito alla legge divina". Che cosa ciò significhi, non siamo in grado di dirlo: Dumezil diceva che gli indiani pensano misticamente, mentre i romani  praticamente. Possiamo invece immaginare che tale unione sia un concetto comprensivo sia del ius che del fas. Nel ius ci sarebbe, come è facile dimostrare, una commistione di tutti i iura humana, divina e naturalia. E' indubbio che la casistica auspicale del fas est/fas non est, appartenga al ius divinum. Ma anche il giurista Fiorentino, quando dice che è nefas insidiare l'altro uomo, in realtà non fa che enunciare una regola che potrebbe rientrare benissimo nel ius naturale. Casi in cui fas ha valenza di diritto divino: ius ac fas omne delere: sovvertire ogni senso di giustizia umana e divina; fas habere: ritenere lecito; si hoc fas est dictu: se è lecito dir così; id... fas armorum et ius hostium est: ciò sarebbe conforme alle leggi di guerra e al diritto tra nemici; fas obstat: il destino è contrario.  Ma potrebbe anche darsi che questa unione realizzi qualcosa di diverso, per noi insondabile: "andare verso la luce" ?

Osserviamo che, secondo F. Rendich, "Yoga, nella filosofia indiana, impersonava il figlio di Dharma, Legge, Giustizia, e di Kriya, l'Azione Religiosa che tramite l'unione con il divino conferiva forza di legge alle formule sacerdotali...Yoga era figlio di Dharma e di Krya, ma, etimologicamente, egli era anche figlio di iu (yu), in indoeuropeo, la fonte originaria della Legge, della Giustizia e dell'A zione Religiosa".  

Torniamo così al rito (Azione Religiosa). In verità, il ius incontra il fas nei vari riti auspicali pubblici e privati: convocazione dei comitia populi, confarreatio ecc. In generale, possiamo dire che, proprio attraverso il rito, si realizza l'unione tra fas e ius. In seguito alla pronunzia del fas da parte di Giove, questa parola acquista una dimensione pubblica e si umanizza. 

Ma, tenendo conto della etimologia che fa derivare fas da facio, nel primo significato di "porre", "costituire", ( ma facio è collegato anche a fax, fiaccola) etimologia che avvicina il fas alla greca Temi (come opinava Decimo Magno Ausonio), si può fondatamente collegare il fas al concetto di "ordine cosmico", ordine espresso dal Calendario, dominato dal re degli dei, Giove. Questo dio ha la precipua funzione di comunicare agli uomini la volontà divina, opportunamente interrogato dagli auguri. Ed è qui che il fas si fa diritto divino, non prima, quando è nella sua assoluta condizione di norma regolatrice dell'universo. In sostanza, esso è uno Statuto divino che, tramite Giove, emana la sua parola su ciò che è lecito e su ciò che non lo è; è una norma "posta" in eterno che regola l'andamento dei ritmi naturali e delle vicende umane. Ne è testimonianza il binomio dies fasti/dies nefasti che tanto ha condizionato la vita giuridico-amministrativa della civitas. Il fas indica l'idea di "ciò che è lecito", di "ciò che è permesso" secondo la volontà divina, mentre ius significa "ciò che è giusto" secondo la volontà degli uomini. 

Non penso di sbagliarmi se dico che questa quantità di radici linguistiche ( ce ne siamo accorti analizzando le etimologie di alcuni dei), lungi dall'essere un coacervo senza capo né coda, chiarisce aspetti e caratteristiche di una stessa realtà.  

 

Il concetto di fas.

Il concetto di fas ha dato e continua a dare filo da torcere a romanisti e glottologi. Scopo di questo post è tentare di gettare un po' di luce sull'intricata vicenda.

Secondo F, Rendich non vi sarebbe una sostanziale differenza tra le radici dha (porre, istituire) e bhas (splendere), perché, nel primo caso, la consonante indoeuropea d significa luce ( e quindi, indirettamente, fuoco, calore, energia), mentre nel secondo caso possiamo ravvisare la corrispondenza europea tra luce e "parola come legge divina". Quanto alla prima radice, si deve specificare che il significato di porre o istituire è limitato (per quel che ci interessa) all' istituzione sulla terra della legge divina mediante il posizionamento di un fuoco sacro". Cadrebbe così l'autorevole opinione di alcuni studiosi che, come G. Dumezil e H. Fugier, hanno definito rispettivamente il fas come "l'assise mistica di lassù" e come "norma cosmica", al pari della greca Tèmis, la dea dell'equilibrio cosmico. 

Nel 1978, P. Cipriano metteva in discussione questa teoria, obiettando la riconducibilità del fas "ad una parola proveniente da persona fornita di particolare sapienza, potenza e comunione col divino. Secondo le fonti...possiamo ritenere che l'antico rex avesse questi requisiti...Alla luce di tali considerazioni, si può dunque capire quale fosse il verisimile senso della formula calendariale Q. R. C. F. ( Quando rex comitiavit fas): "quando il re ha adunato il comizio c'è la sua parola...D'altra parte bha ha dato origine nell'area indoeuropea a termini che esprimono un atto di parola fornito di particolare forza magica. ovvero designano un individuo la cui parola abbia capacità particolari...Scomparsa la realtà politica e sociale della monarchia, il termine fas , stabilizzatosi nella locuzione fas est, assunse il significato di ' è lecito'." Citiamo ancora: "...Ritengo di aver posto nel dovuto rilievo il fatto che fas est e nefas est indichino in epoca storica un tipo di liceità il cui fondamentale discriminante è la volontà divina...In tali occasioni, infatti, il permesso viene, in qualche modo, richiesto al dio dall'agente. Un posto preminente in tale ambito occupano quei passi nei quali si fa menzione degli auspicia. Con tale mezzo i romani cercavano di sondare la volontà degli dei in merito a importanti atti della vita pubblica, per stabilire se questi avessero o meno l'approvazione di Giove, e, quindi, se fosse lecito che si verificassero."

Secondo la Cipriano, dunque, il fas sarebbe una parola, dotata di autorevolezza, proveniente da forze impersonali, cioè dagli dei, o da uomini aventi un prestigio particolare nell'ambito della civitas, come il rex o, penso, anche i sacerdoti.

A sostegno della Fugier e del Dumezil, dobbiamo però richiamare il fatto che lo stesso Calendario, ritmato sulle esigenze di un popolo di agricoltori, conteneva i giorni fasti e nefasti, ovvero i giorni in cui rispettivamente era lecito dedicarsi a determinate attività, e i giorni in cui non lo era. Lo scandire delle stagioni ed il ciclo lunisolare, può far pensare al fas ( che Virgilio definisce immortale) come ad un principio regolatore dell'Universo, norma ed equilibrio cosmici. Infatti G. Dumézil dice: " A mio parere fas non appartiene alla radice di fari...ma a quella di facio, nel suo primo significato di "porre"; sono incline a scorgere tra fas e ius un rapporto comparabile a quello che si intravede in vedico tra due concetti dell'ordine del mondo: dhaman e rta..."

Vediamo ora cosa dice l'antropologo M. Bettini (2022), in merito al fas. Questo autore è del parere che il fas non possa essere considerato una Legge divina, come invece attestano le stesse fonti antiche, da Servio a Isidoro : "...il termine fas voleva esprimere - in generale - una forma di lecito o di illecito, giusto o ingiusto, e così via: come tale non produceva imbarazzi o contraddizioni...se lo si faceva agire non solo nel mondo degli uomini, ma pure in quello degli dei".  Dice sempre l'autore: " Se infatti si escludono un paio di glosse che in qualche modo rimandano alla dimensione religiosa...le altre danno spiegazioni che prescindono totalmente dal rapporto con il divino: di volta in volta infatti fas viene inteso come lex, naturalis lex, licentia, ratio, ovvero come tutto ciò che è licitum, iustum, rationabile, conveniens...Tutte spiegazioni ciòè che riferiscono il fas non a una presunta legge divina, ma, di volta in volta, alla "legge", alla "legge naturale", a "ciò che è lecito", a ciò che è "conveniente", "giusto", "razionale", e così via. Del resto non abbiamo forse visto che lo stesso Servio...spiegava (il fas)...anche con iura naturae, fatum, ius, possibile est, licet ?" Bettini nota ancora che "i Romani...usano fas anche per designare il giusto rapporto tra madre e figlia...e allo stesso modo il fas regola il comportamento di un padre verso il figlio..."

In sostanza, il Bettini rimanda il fas ad una serie di significati che nulla hanno a che vedere con una presunta Legge divina, ma ai più disparati concetti, tra cui spiccano quelli di 'lecito' e di 'giusto': "...sono davvero molte, e diverse fra loro, le situazioni in cui le espressioni fas est/ nec fas est e fas sostantivo vengono riferite a situazioni in cui non vi è relazione con la divinità né alcuna connotazione di carattere sacro". Il fas come legge divina, sarebbe dunque un fraintendimento delle fonti antiche.

Anche il Dizionario della Lingua latina Campanini-Carboni (2007), riporta numerosi significati del vocabolo fas: " 1. legge divina, diritto divino; 2. ciò che è permesso, il giusto, il lecito; 3. volontà divina; 4. diritto, legge; 5. senso del dovere, dovere."

Ciò non può stupire se consideriamo la cultura giuridica romana come un inviluppo di termini, concetti e , alla base, radici linguistiche. Complessivamente, possiamo, in via di conclusione sommaria, dire che il fas vale "precetto divino, norma di natura e senso morale". Il fas e il ius procedono congiuntamente.

Ma, ritornando alle ipotesi di F. Rendich, si svela compiutamente il concetto di fas, di là dai molti usi che ha avuto il sostantivo. Questo concetto riposa sui termini di luce, parola, splendore e Legge divina. Infatti, come abbiamo visto analizzando le etimologie di alcuni tra i maggiori dei romani, e in particolare di Giove, che significa alla lettera "padre splendente", in esse prevale l'idea della luce, dello splendore, del fuoco generatore. 

Il fas allora sarebbe la "parola lucente" o "splendente" di Giove, con la quale il Padre celeste ammaestra gli uomini, indicando loro la via da seguire: "parola come legge divina"; il lecito, "ciò che è permesso" agli umani per decretazione divina, o anche di personalità ritenute superiori ( rex, oracolo, sacerdote). E' evidente, che, ufficialmente, la parola pronunciata da Giove (signa ex avibus) ha maggiore autorevolezza di quella pronunciata da autorità umane. Ed è così che non deve destare meraviglia la definizione di fas come legge divina: il fas ha il valore primario di "ciò che è lecito" secondo la volontà degli dei.

E' del tutto ovvio, poi, che, come sottolinea il Bettini, fas venga usato spesso anche in contesti che non hanno nulla a che spartire col sacro: fas est e fas non est sono espressioni che ricorrono anche ad indicare i doveri morali tra madre e figlia o il dovere di riconoscenza. Sono usi profani che non intaccano il senso più profondo del fas come lex divina: poiché, come dice Servio, il commentatore di Virgilio, fas et iura sinunt : id est divina humanaque iura permittunt: nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent.

In questa frase è condensata la caratteristica non sistematica del pensiero romano: il fas è equiparato ai divina iura ed è facile immaginare che la casistica fas est/fas non est fosse custodita negli archivi augurali.

Quindi, se anche il fas non è "norma cosmica", è senz'altro lex divina , nel senso che abbiamo esplicitato innanzi. Probabilmente c'è del vero nelle opinioni di tutti gli autori che abbiamo citato. Non c'è alcuna contraddizione ad accettare il fas come norma cosmica (che si rivela nell'ordine del Calendario), dove sono indicati i giorni in cui è lecito fare o non fare determinate cose,  il fas come parola splendente di Giove, che indica agli uomini ciò che è permesso fare, e il fas come senso o dovere morale. 

 

 

 

Il concetto di ius.

Nella precedente ricerca, abbiamo tentato di analizzare partitamente le componenti del ius, giungendo alla conclusione che questo termine va considerato più da una prospettiva sintetica che non analitica. Vorrei in questo post enucleare il concetto di ius.

Ius trova un riscontro terminologico nelle odierne parole diritto, droit, Recht, right (o law) ecc. e viene tradotto con il termine generico di "legge" (I romani stessi lo definivano lex humana). La definizione più nota, ma anche più banale, è quella di "complesso di regole che disciplinano una società". Certo il diritto ha una funzione di disciplinamento dei comportamenti sociali, ma il significato del latino ius non si lascia ricondurre alla definizione suesposta ed esige una attenzione più circostanziata.

Essendo lex humana, lo ius va associato all'umanità , ed è, a prima vista, ciò che fa l'uomo, ciò che è l'uomo. Lo ius riflette quindi la vita umana: e l' uomo stringe contratti, fa la guerra, contrae matrimonio, intenta cause, compie atti criminali ed infine muore, lasciando o meno un testamento. Così troviamo nella cultura giuridica romana, varie denominazioni del ius a seconda del campo di esplicazione delle rispettive norme: il ius civile, che riguarda i cittadini romani e che si divide in publicum e privatum; il ius praetorium, introdotto nell'ordinamento dai pretori per correggere il ius civile e supplire alle sue carenze; (a proposito del ius praetorium o ius honorarium, così detto ab honore magistratuum, io ritengo che nemmeno esso sia da considerare una branca specifica dell'ordinamento romano: a parte il suo prestigioso successo, questo ius ebbe sempre una funzione ancillare nei confronti del ius civile) il ius gentium, sfera giuridica comune a tutti gli uomini; e il ius naturale, che gli uomini condividono con tutti gli esseri animati. Questi iura completano tutto il sistema romano dei rapporti sociali, nel senso che non si trovano nelle fonti altre branche giuridiche: non uno ius administrativum, analogo e precursore dell'odierno diritto amministrativo (semmai dell'epoca tarda è la locuzione ius in administranda re publica); non un diritto costituzionale, inteso modernamente come un insieme di norme afferenti il funzionamento della Costituzione (questo perché, e lo vedremo meglio a suo luogo, la costituzione romana è di tipo strutturale-funzionale e non normativo); per il resto vi sono tracce nelle fonti di un ius extraordinarium e di un ius novum, che sembrano riferiti al nuovo regime instaurato dal Principato; peraltro non siamo autorizzati a farne nuclei normativi da affiancare al ius civile (o ius civitatis, espressione che ha una coloritura pubblicistica), per la mancanza di una consapevole elaborazione giurisprudenziale. Infine, altri ius, come il ius pontificium, (affine al ius sacrum e al ius divinum), sono sussumibili nel ius publicum, ed infatti ne trattarono gli auctores iuris publici.

Secondo una accreditata opinione, il sostantivo ius deriverebbe dal verbo indoeuropeo iu, col significato di "unire" in senso religioso, come avviene per yoga. In altre parole, ius vorrebbe dire "unione con la legge divina"; iustus "colui che si è unito alla legge divina" e via elencando.

E poiché, secondo gli eruditi latini, come il tardo Isidoro di Siviglia, il fas è la legge divina, il significato di ius sarebbe "unione con il fas" , da cui il frequentissimo accoppiamento dei due termini. (ius fasque) Di seguito esamineremo il concetto di fas, per poi trarre le conclusioni sul rapporto tra fas e ius.

 

Le componenti del ius.

 

Abbiamo provato in precedenza ad enumerare le componenti del ius. Tuttavia, alla luce di quanto acquisito in seguito, emerge la necessità di rivedere detta enumerazione, per integrarla, arricchirla od anche semplificarla.

Allo stato attuale le componenti del ius, appaiono le seguenti: ius= Religio (comprensiva dei sacra, dei collegi e sodalizi sacerdotali e degli stessi dei, dalla radice lag , cogliere, collegare, accogliere il divino (F. Rendich, 2013) + fas (la Legge divina che, come vedremo, è unita al ius) + mos (o consensus o consuetudo) + natura (la realtà delle cose, sia in senso profano sia in senso sacro) + factum ( l'elemento materiale che sta alla base del diritto; a questo aggiungerei la necessitas, altra entità fattuale: il giurista Modestino riteneva che tutto il diritto (omne ius) è fatto  dal consenso, dalla consuetudine e dalla necessità delle cose) + lex (ius scriptum da contrapporre al ius non scriptum, ovvero alla consuetudo, come portato delle rivendicazioni popolari. Anche lex, come religio, nasce dalla radice lag, nel significato, forse, di legame giuridico) + mos, che significa morale, usanza, costume, + utilitas ( da intendere come l'oggetto del diritto, non già come sua essenza) + res (possesso, bene, acquisizione, analoga ad utilitas) + ritus, da una radice rta, che vuol dire ordine delle cose, veramente già implicito nei sacra, cioè nelle cerimonie sacre effettuate ritualmente.

Abbiamo in tutto nove componenti. Ma è possibile una semplificazione. Il fas, innanzitutto, cui Plinio il Giovane dava la qualificazione giuridica di publicum, è in realtà compreso nella religione: il grammatico Festo diceva che gli iura ad homines pertinent, il fas ad religionem.(pertinet). Gli elementi fattuali, factum, necessitas, utilitas, consensus, stanno in realtà alla base del diritto, lo determinano, ma non ne rappresentano l'essenza. Per quanto riguarda il rapporto tra mos e consuetudo, generalmente considerati sinonimi, si fa notare che invece esiste una differenza: il mos è permeato di sacralità ed indica un insieme di comportamenti seguiti per attuare il bene della comunità: si possono riassumere in fides, gravitas, maiestas, virtus, pietas. La consuetudo, invece, indica la semplice abitudine seguita dai consociati nell'ordinario svolgersi della vita, indipendentemente da qualsiasi coloritura religiosa. Tuttavia, i giuristi classici danno un grande valore alla consuetudine, arrivando a darle una rilevanza giuridica anche maggiore alla lex. E quindi è lecito ricomprendere la consuetudo nell'ambito del mos, stando all'affermazione di Quintiliano, secondo il quale il ius è composto dalle leges ma soprattutto dai mores. Il termine mos designa quindi sia il costume avito sia le semplici consuetudini laiche. Anche la legge è da intendere in un senso più ampio: nel diritto pubblico era nota la lex-contractus stipulata tra i censori e i privati e del resto oggi si dice che il contratto è legge tra le parti. Bisogna anche notare che la lex, in diritto romano, mantenne il suo schema rituale per lungo tempo, almeno fino alla lex generalis di Costantino. Non solo: nelle fonti il termine ius è usato anche nel significato di facoltà, potere di azione: ius deambulandi e ius agendi eundi. 

Questa analisi ci ha portato così alla sintesi: siamo persuasi che non si può ridurre il ius ad un mero elenco di componenti, considerato l' intreccio di tutti gli elementi che ne fanno parte; esempio ne sia che la lex rimanda al rito, il quale è parte integrante della religione. Ancora un esempio: il mos nasce come insieme di comportamenti sacrali (mos maiorum), ma finisce per stemperarsi nella consuetudo, che indica abitudini scevre dalla sacralità. La stessa utilitas publica era considerata come giustizia, e, per i Romani, il diritto era giustizia a tutti gli effetti. 

Accade un po' quello che succede per le etimologie che abbiamo esaminato: quello che viene fuori è un groviglio di termini, concetti e idee, che è vano tentare di dipanare.

Risultanze dell'analisi etimologica.

 

Nel penultimo post, abbiamo passato in rassegna sei divinità romane, esponendone le relative etimologie. E' ora venuto il momento di chiederci se questa modesta indagine abbia portato a una qualche conclusione.

Su sei etimologie, almeno cinque hanno evidenziato l'elemento della luce. Solo Giunone è da collegare a una radice col significato di generare, e ad un'altra nel significato di "unire" (in matrimonio). 

Le altre, direttamente o indirettamente, fanno capo all'idea del fuoco generatore e quindi della luce in perpetuo moto. Giano lo si fa derivare dalla stessa radice di ire (andare), ma contemporaneamente viene identificato con il fuoco creatore, che origina la vita. Da questo punto di vista di capitale importanza, il dio sembra associabile a Giunone, la dea della fecondità femminile. E non dimentichiamo l'esistenza di una Juno Lucina, che favoriva il parto, portando così alla luce il neonato. Come conseguenza, vengono estrapolate almeno tre radici linguistiche:  di ( da cui dies, la luce del giorno); iun, che allude alla generazione e ya, che significa "andare".

A parer nostro siamo di fronte non a tre radici distinte, bensì ad un' unica radice che prende significati diversi. Così Giove deriva da div, in cui i significa andare, d la luce e v il diffondersi della medesima. Nel nome Jupiter si fondono il significato di "andare" e quello dello "splendore della luce", con il correlativo atto del "diffondersi". Altro dio associato allo splendore della luce è Mars, dalla radice mar, lucente, per cui questo dio sarebbe il "Dio splendente". Altre divinità rapportabili alla luce, sono, come abbiamo visto, Diana e Vesta.

I termini principali che possiamo individuare sono tre: "andare" , "splendere" e "generare", che derivano da un'unica radice indoeuropea, adattatasi ad esprimere idee differenti ma pur sempre intrecciate. Anche il fas, derivante da un bhas esprime il concetto di "parola splendente" di Giove , ed anche come derivato di una radice dha, "porre", "costituire, ha a che fare con la luce: infatti il "porre... un fuoco sacro (dhaman) per gli indoeuropei era l'atto di fondazione... sulla terra delle norme divine" (F. Rendich, 2013).

Possiamo quindi concludere che il mondo dei maggiori dei di Roma (Janus, Jupiter, Juno e Mars) è un mondo di luce, e che l'uomo ha il compito di avvicinarglisi, unendosi ad esso. Quanto al ius, è d'obbligo citare l'ingenua (ma forse non troppo) etimologia vichiana: ius ab Jove. Oggi il glottologo F. Rendich (2013), ha avanzato la tesi secondo la quale ius deriverebbe dal verbo indoeuropeo iu (andare tenendo insieme, trattenendo ovvero unire), da cui il verbo latino iungo. Questa etimologia avvicina ius a Giano , che, azzardiamo una ipotesi, potrebbe significare la "via splendente", dato il suo ruolo di primo fra gli dei, che trasforma la potenza in atto ed è all'origine di ogni cosa. L'atto creativo è infatti un atto di luce.

 

La letteratura giuspubblicistica romana.

 

Alcuni romanisti, come Vincenzo Giuffrè, ritengono che il diritto pubblico romano, impregnato di politica, storia e religione, non possa reggere il confronto con quello privato, che sarebbe il vero diritto romano. In altre parole, i Romani avrebbero avuto del loro ius publicum una visione solo "impressionistica", per non dire alquanto limitata e frammentaria.

In effetti, come abbiamo cercato di dimostrare in un precedente post, il diritto pubblico afferiva alla comunità, intesa come il complesso di tutti i singoli cives aventi diritto a parteciparvi. (in sostanza i patres familias, ma anche i filii familias, che godevano nel campo della sfera pubblica di diritti ben maggiori di quelli attribuiti loro dall'ordinamento nell'ambito della sfera privatistica). In sostanza, secondo questa visuale, il diritto pubblico era attinente sempre agli individui, solo visti nel loro insieme.

E' indubbio che la gran massa delle opere giuridiche romane di cui abbiamo notizia, e di cui rimangono frustuli nel Digesto, verteva su questioni de jure privato. In particolare, la giurisprudenza classica si occupava di commenti all'Editto pretorio, in cui era codificato un patrimonio giuridico che possiamo definire senz'altro privato, di libri digestorum, e quaestionum che contenevano una ricca casistica sempre di diritto privato, di libri regularum  e via dicendo.

Non solo, ma i più famosi nomi di giuristi, da Quinto Mucio Scevola, a Sulpicio Rufo, da Masurio Sabino a Cassio Longino a Gaio, Ulpiano e Papiniano, sembrano non essersi occupati di questioni riguardanti il funzionamento dello Stato. Ma in età repubblicana, fiorisce una notevole letteratura di diritto pubblico, incentrata principalmente sulle magistrature.

Di problemi legati al tema dell'assetto organizzativo dello Stato, si erano occupati due uomini politici di opposte tendenze ideologiche: Gaio Sempronio Tuditano, autore di un "vasto scritto sulla magistratura" (G. Valditara, 2008) e Giunio Congo Graccano, di parte democratica, di cui si ricorda il titolo di un'opera, il De potestatibus. Al III secolo A.C. appartiene la figura di Lucio Cincio Alimento, annalista, ma anche scrittore di diritto pubblico: di lui si ricordano i titoli di numerose opere: de officio iurisconsulti, un libro De consulum potestate, un De comitiis, un De Festis (sulle festività) e infine un sostanzioso De re militari, su tematiche riguardanti, tra l'altro, il ius fetiale. Nel I sec. A.C., si erano occupati di diritto pubblico Quinto Elio Tuberone, autore di uno scritto De senatu; Gaio Trebazio Testa, di cui si ricorda un De officio quaestoris e un De religionibus; e Capitone cui vengono attribuite almeno tre opere: un De officio senatorio, un De iure sacrificiorum e  un De iure pontificio. Anche l'augure Marco Valerio Messalla Rufo scrisse un De auspiciis, un libro sulla divinazioneL'elencazione non è esaustiva.

Piuttosto bisognerebbe volgere l'attenzione all'abbondante letteratura De officio ( sul dovere), che fiorì in età imperiale tra il II e III sec. D,C., per vedere se possa essere considerata degna continuatrice delle opere di argomento magistratuale, o se invece rifletta una realtà istituzionale del tutto mutata.

Per quanto ci riguarda, siamo del parere che un autore come Publio Nigidio Figulo, conosciuto come filosofo neopitagorico, abbia trattato anche di diritto pubblico almeno in un caso; con lo scritto De Diis, opera andata perduta. Lo stesso Marco Terenzio Varrone, di fama antiquario ed erudito, scrisse le Antiquitates humanarum atque divinarum rerum, opera che, a nostro avviso, può essere considerata come un trattato iuris publici. Del resto, anche il logistorico Curio de cultu deorum, potrebbe rientrare in questa branca della letteratura giuridica romana.

 

Etimologia di alcuni dei romani.

 

Come pensava Giambattista Vico, lo studio dei problemi linguistici è essenziale per ricostruire il pensiero di una data civiltà. In questo post, vorremmo prendere in esame le etimologie dei nomi di alcuni dei romani, almeno di alcuni dei più importanti: Giano, Giove, Giunone, Marte, Diana e Vesta.

Giano - il nome Janus discende probabilmente dalla radice indoeuropea ya, che significa l' " atto di andare" (ire). E' il dio che presiede ai passaggi in genere (ianua, porta). Si tratta di una antichissima divinità italico-romana, che non ha riscontri nella religione greca. Per il suo significato era raffigurato come bifronte (avanti/indietro). Il poeta augusteo Ovidio, per la sua foggia informe, lo paragonava al caos primordiale. E' il dio dei prima, degli inizi di tutte le cose, ed è notevole che il suo culto venga associato a quello del Sole e di Vesta, facendone un dio della luce. Veniva considerato il Padre degli dei.

Giove - E' il dio supremo della religione romana, il dio dei summa e del cielo luminoso, anche se con varie specializzazioni (Jupiter tonans ecc.). L'etimologia è quella dell'indoeuropeo div (cielo, giorno), Secondo F. Rendich, (2010), "le parole indoeuropee div, cielo, giorno, luminosità e di brillare, splendere, furono all'origine dei termini sanscriti divya "divino" e deva "dio", cui corrispondono i termini latini divinus e deus, nonché...il latino Jupiter e il greco Zeus. Nei suddetti temini, la vocale i è il verbo "andare" e la semivocale v ha il senso di "staccarsi da", "diffondere", per cui div in origine significava "il moto della luce che si diffonde", e di era "il moto costante della luce". E' a tutti nota l'espressione latina sub divo, che significa "sotto il cielo". Per il resto, Giove era il garante dei patti e della giustizia, nonché la  Divinità protettrice dello Stato. 

Giunone - l'etimologia del termine Juno si ricollega a iun,, donde juno , la capacità generativa della donna, che si manifesta nella junctio, ovvero nel matrimonio. La juno è l'equivalente del genius maschile. La dea era la protettrice dei parti ed era legata al ciclo lunare, come nell'antichissima tradizione italica. Associata a Giove nella Triade capitolina, insieme a Minerva, anch'essa aveva la funzione di difendere lo Stato.

Marte - la prima etimologia riferibile a Mars che viene in mente, è quella da mas, che in latino significa "maschio adulto". Secondo Paolo Galiano e Massimo Vigna (2013), tuttavia, verrebbe in considerazione una "radice mar , in relazione con il sanscrito marikis, lucente, per cui Mars sarebbe il Dio splendente, quindi una divinità avente carattere solare e celeste...". Arbitrariamente identificato col greco Ares, dio della guerra, Marte ha la funzione di proteggere l'ordine della comunità, anche con le armi, e di scacciare tutte le forze generalmente negative.

Diana - l'etimologia di Diana sarebbe "dius", "della luce" ( dies, (luce) del giorno), derivante da un arcaico divios, cosicché il nome originario della Dea sarebbe stato Diviana. Signora delle selve, era protettrice delle donne e dispensatrice della sovranità. In seguito, essa venne assimilata alla greca Artemide, e, ancora più tardi, a varie figure di Dee di origine orientale. 

Vesta - Vesta è una divinità antichissima. Secondo Paolo Galiano e Massimo Vigna (2013), "la dea, non ostante le interpretazioni antiche e moderne, nulla ha a che vedere con Hestia...se Hestia deriva da una radice sueit con significato di bruciare, per cui Hestia è suit-tia, il fuoco del focolare, Vesta origina da wes,, abitare, dimorare, e quindi è la divinità del focolare e della casa stessa, la quale in un certo senso custodisce tra le sue pareti il focolare". A Vesta non spetta il creare qualcosa, come nel caso di Ceres e Tellus: il suo compito è quello di preservare il creato secondo l'ordine divino, mantenendo vivo il fuoco inteso come "intimità cosmica".

 

I magistrati baricentro del diritto pubblico romano.

 

La repubblica romana è stata definita "aristocratica" od "oligarchica", perché il potere vi era detenuto da una ristretta cerchia di notabiles, che andavano a ricoprire anche contemporaneamente le cariche civili e sacerdotali. Questa cerchia non era tuttavia una casta in senso proprio, perché poteva conoscere immissioni di nuovi elementi dall'esterno, come testimonia la variegata composizione etnica del Senato in età severiana. Si trattava però sempre di immissioni di personaggi altolocati, appartenenti alle classi superiori provinciali. 

Vorrei richiamare l'attenzione sulla centralità della figura istituzionale del magistrato, che sembra aver avuto un ruolo particolarmente importante nella gestione del potere nella Roma repubblicana, almeno fino agli ultimi decenni del II sec. A.C., quando le tradizionali magistrature furono sostituite, nel vano tentativo di razionalizzare e dare un nuovo assetto alla cosa pubblica, ormai sprofondata nel caos, dai triumvirati rei publicae constituendae.

Nell'ambito della Costituzione repubblicana, il magistrato ha un ruolo di primo piano, ma bisogna avvertire che, trattandosi di Costituzione mista, i punti di vista cui guardare il potere pubblico, sono più d'uno. Infatti, se guardiamo alle funzioni del popolo radunato nei comitia (curiata, centuriata e tributa), che legiferava in numerosi campi (internazionale, criminale e finanziario), potrebbe sembrare che Roma fosse stata una democrazia; se guardiamo al Senato, e alla sua centralità nelle questioni pubbliche, vien fatto di pensare che a Roma prevalesse l'elemento oligarchico; infine, se consideriamo le mansioni dei due consoli, (adiuvati nei loro compiti istituzionali  dai magistrati minori come i pretori, i questori, i censori, gli edili ecc,), è dato di pensare che Roma fosse una monarchia ( o meglio, una diarchia), poiché i consoli erano titolari dell'imperium , ovvero di un potere illimitato, paragonato da Cicerone alla stessa legge che governa il mondo. 

Non resta che accettare la molteplicità di questi punti di vista. Ed è perciò che la definizione di Ulpiano del diritto pubblico è sintetica ma esaustiva. Vi compaiono in primo luogo i magistrati, dotati di ius agendi cum populo e di ius agendi cum senatu, cioè, rispettivamente, della facoltà di convocare il popolo per deliberare le leges publicae, e della facoltà di convocare il Senato per provocarne una decisione. A proposito di ius agendi cum senatu, è noto che Varrone preparò per Pompeo un manuale, De senatu habendo, una sorta di vademecum per interagire col massimo organo di governo.  

Come si può notare, la funzione magistratuale era una sorta di perno o ago della bilancia dell'intero sistema pubblicistico romano. Ma. una volta cessata la sua carica, il magistrato entrava a far parte del Senato, che perciò possiamo paragonare ad una consorteria di ex-magistrati che vi prendevano posto secondo il grado della dignità ricoperta. Ma essi non ridiventavano semplici privati, dal momento che mettevano la competenza acquisita al servizio dello Stato. 

 

 

La natura fra ius privatumius publicum.

 

Ulpiano scriveva che la giurisprudenza è la "sapienza delle cose umane e divine, la scienza del giusto e dell'ingiusto". Fermo restando che per i Romani il diritto è uno, è possibile individuare le sfere approssimativamente distinte di azione dei due iura. Innanzitutto Ulpiano non parla di rerum naturalium, ma solo degli "argomenti umani e divini". La natura è distribuita, nel corpo dell'universo diritto, in due sensi: la natura in senso "profano" e la natura in senso "sacro"; manca invece la natura come insieme di leggi fisiche, che non poteva interessare i giuristi.  Nel primo senso, essa appartiene eminentemente al diritto privato, fatta salva la presenza dei sacra privata, che sono gentilizi, familiari e collegiali. Tranne rade eccezioni, come il matrimonio confarreato, celebrato alla presenza del pontefice massimo e del flamen Dialis, il culto privato non verte quasi mai sui grandi dei dell' "Olimpo" romano. Questo perché la materia dei sacra, ovvero delle cerimonie sacre celebrate in onore delle più importanti deità, faceva parte del diritto pubblico insieme alle magistrature e ai sacerdozi. Ne consegue che la natura era considerata religiosamente soprattutto nell'ambito pubblicistico, come attesta il Calendario, che scandiva le festività dedicate a ciascuna divinità.

Saremmo tentati di identificare il ius privatum col ius humanum, vista la sua prospettiva "orizzontale", contrapposta alla prospettiva decisamente "verticale" del ius publicum, ad occhio più vicino al ius divinum, o sacrum o pontificium. Non è un caso se queste ultime due denominazioni richiamino direttamente i sacra e i pontefici, collegio sacerdotale facente parte del diritto pubblico.

E gli dei simboleggiavano la quintessenza dei fenomeni naturali nonché quella di fenomeni legati alla stessa persona umana. Sappiamo dell'esistenza di trattati, nella letteratura giuspubblicistica romana, dedicati non soltanto ai magistrati (Libri magistratuum), ma anche ai sacerdoti ( De sacerdotibus). Tutta questa letteratura viene solitamente sottovalutata dagli addetti ai lavori: si parla di erudizione e di antiquaria, senza considerare gli sforzi dei grandi giuspubblicisti romani, tra cui spicca Varrone, di interpretare la realtà divina. 

Altre notazioni in materia di fas.

 

Vien detto che il fas equivarrebbe a legge divina, norma di natura e senso morale (fas disciplinae), ricomprendendo dio, la natura e l'uomo. Cosa debba intendersi per legge divina, non è chiaro. Secondo il Dizionario Larousse della civiltà romana (2001), il fas sarebbe una "nozione religiosa e giuridica complessa", col senso di "permesso, ordine, approvazione degli dei, diritto divino e dunque ciò che è autorizzato conformemente alle leggi divine o naturali...In origine c'era un solo diritto (ius), essenzialmente religioso, considerato diritto divino...quando applicato alle cose divine (...ius pontificale, ius augurale) e diritto umano...quando applicato alle cose umane." In questo contesto, il fas "avrebbe evocato l'approvazione concessa dagli dei agli atti conformi all'ordine dell'universo, la consacrazione divina per ciò che è normale". I Latini stessi associavano il termine fas a Temi, dea greca dell'equilibrio cosmico, e quindi della giustizia. La studiosa Huguette Fugier, ha sostenuto, sempre sulla base della 'parentela' fas-Temis, che in origine i due termini, avvicinati all'indiano daman (legge), avrebbero indicato una nozione 'pregiuridica', " l' ordine regolatore dell'universo". 

Anch'io sono di questa opinione. Etimologicamente fas ha un origine del tutto diversa da ius, e quindi anche un diverso significato. Il ius tende al fas, ma, non si immedesima in esso, il quale ha il senso di una realtà assoluta, che precede e trascende l'ordine umano. Il fatto che alle origini il vocabolo avesse un uso più aggettivale ed avverbiale (fas est/fas non est) che sostantivale, non inficia questa tesi, e potrebbe rappresentare una fase ancora non matura nella elaborazione delle idee e dei concetti. 

Il fas sarebbe allora l'equilibrio cosmico, come Temi. Ma non bisogna dimenticare l'interpretazione che Franco Rendich dà del fas, vedendovi una duplicità di etimologie: fas da bhas=parlare, manifestarsi e fas da dha=porre, costituire.  Nel primo caso abbiamo fas come "diritto divino" ("fastus"="favorevole all'applicazione della legge divina" ecc.); nel secondo fas come "legge divina"; in entrambi i casi l'idea espressa è quella della "luce". (vedi il greco faos o fos, luce). 

Nel primo caso, il fas potrebbe essere il diritto divino, e sarebbe dunque la "parola splendente" data da Dio per illuminare il cammino dell'uomo, con i suoi precetti, con le sue "manifestazioni" di volontà, espresse dalla natura. Nel secondo saremmo davanti a un diverso significato, quello di "fondare", "costituire" lo stesso ordine cosmico e il suo armonioso equilibrio.

 

 

 

La dialettica ius publicum  - ius privatum.

 

Prenderemo in esame la dialettica fra i due diritti soprattutto in riferimento al passaggio tra età repubblicana ed età imperiale. Come è stato notato, i Romani ebbero del loro diritto pubblico una idea "impressionistica", nel senso che non vi dedicarono l'attenzione che invece profusero al diritto privato. Una opinione contraria sottolinea invece la continuità delle varie potestates  che si avvicendarono nel tempo, dall' età dei Re fino all' Impero postclassico. Secondo questa opinione, non vi sarebbe una sostanziale diversità tra il potere del rex, quello dei magistratus e quello del Princeps, poi Dominus, nel tardo Impero

E' un fatto che, fin dalla prima età imperiale, le fonti parlano dei quasi-magistratus, in realtà funzionari del Principe, e che tra II e III secolo D.C., si sviluppa una abbondante letteratura de officio ( de officio consulis, de officio proconsulis ecc.), in cui i titolari dei relativi poteri sono visti come mandatari aventi un rapporto di fiducia con il loro superiore gerarchico, l'Imperatore. In realtà, la terminologia pubblicistica romana non si preoccupa di grande precisione: ad es. i regni sono talvolta chiamati res publicae, termine che a rigore dovrebbe designare delle civitates libere e , massimamente, quella romana.

Possiamo allora dire che, terminologicamente e sostanzialmente il sostantivo intorno a cui gravita il diritto pubblico romano nel suo plurisecolare svolgimento, è potere o potestas.( ma anche imperium ), in quanto detenuto da singuli titolari di pubbliche funzioni. Nel passaggio tra Repubblica e Impero, la tetrade ius naturale-ius gentium-ius civile-privatus, prende decisamente il sopravvento su quella magistratus-sacerdotes-sacra-populus, nel senso che viene studiata e maggiormente stimata dai giuristi.   Ancora nel III sec. D.C., Ulpiano dirà, con una definizione apparentemente un po' datata, che il ius publicum è quello che in magistratibus, in sacerdotibus, in sacris consistit , definizione la cui validità  si è voluta estendere fino al periodo dell'Impero romano-cristiano.

Nello stesso torno di tempo la giurisprudenza si occupa del significato pubblicistico di istituti tradizionalmente privatistici: la compravendita, la tutela, il testamento ecc., definendoli iuris publici. Un'altra conferma della natura ancillare del diritto pubblico nei confronti di quello privato ? Perché l'aggettivo "pubblico" significa "ciò che appartiene a tutti gli individui", complessivamente considerati.

 

Diritto e storia.

 

Il diritto, nella prospettiva romana, è uno e molteplice. E' uno perché unico è il modo di realizzarlo, applicando in pari causa pari trattamento. (analogia). E' molteplice, perché, con il divenire storico, si creano sempre nuove esigenze, che vanno affrontate e risolte con strumenti sempre diversi. E cosi, nel diritto privato, al ius naturale si sovrappone il ius gentium, introdotto dai popoli con un certo grado di civiltà, e che è suddiviso in tanti ordinamenti particolari, regna o civitates (iura civilia). Sulla base dell'antichissimo ius Quiritium, probabilmente il diritto dell'età regia, prende forma il ius civile, i cui incunaboli si fanno risalire alle XII Tavole (ius legitimum vetus), il primo Codice di Roma antica. Ma per secoli furono i Pontefici a rilasciare responsi orali ai consultanti, mediante una pratica "puntiforme", aliena dalla scrittura e da una visione "sistematica".

In seguito, intorno al III sec. D.C., propter utilitatem publicam, inizia ad affermarsi il ius praetorium che, per la scioltezza delle forme e la maggiore aderenza alle esigenze della società di quel tempo, si sovrappone all'arcaico ius civile, senza tuttavia abrogarlo o derogarlo. Si era passati da una economia di tipo agricolo-pastorale, ad un economia mondiale basata sul capitale commerciale, di cui Roma rappresentava il centro.

Con l'avvento dell'Impero, e la cessazione dell'attività dei comizi popolari, si delinea un diritto "imperiale", denominato nelle fonti ius novum o ius exraordinarium. Il giurista adrianeo Sesto Pomponio, nel suo Enchiridion o Manuale, tratteggia una storia delle magistrature repubblicane, e giunto all'Istituzione imperiale, si limita a dire che essa fu creata per necessità di cose, perché , non potendo più il Senato gestire tutti gli affari pubblici, si decise che la res publica per unum consuli. E' il momento dell'espandersi del grande latifondo, tanto che Plinio il Vecchio osservava come esso "avesse rovinato l'Italia" (Italiam perdidere). A proposito del ius extraordinarium, alcuni autori, come Salvatore Riccobono, vollero farne un nuovo ordinamento giuridico da affiancare al ius civile e al ius praetorium, ma l'ipotesi non trova conforto nelle fonti.

In età post-classica, assistiamo al sorgere del potere assoluto, all' accentuarsi della burocratizzazione, che porta ad un sempre più marcato squilibrio fiscale,  alla diffusione del Cristianesimo ed alle invasioni barbariche, tutti fattori che porteranno al crollo dell'Istituzione imperiale. La fine sopravvenne comunque in un periodo di economia attiva. 

Come possiamo constatare da questo quadro alquanto succinto dei rapporti fra diritto ed economia, e quindi dell'evolversi storico, il diritto rimane legato al mutare della società nel suo complesso, non è un qualcosa di immobile e avulso dal contesto in cui si trova. Teoricamente c'è un unico modo per attuare la giustizia, ma di fatto ce ne sono tanti quanti sono le formazioni sociali che prendono forma nel divenire storico. 

E tuttavia, pur nel susseguirsi degli eventi, il diritto è "norma unica", (C. Ferrini, 1900) perché le regole che lo compongono sono organizzate in un "sistema" che trascende tutte le congiunture storico-sociali. 

Libertà e informatizzazione.

 

Con l'informatizzazione si è avverato il sogno di Cartesio, Leibnitz e Hobbes: l'algoritmo è diventato la mathesis, ovvero una lingua e dottrina universale. Ciò era anche nei voti del matematico italiano Giuseppe Peano, che concepì il latino sine flexione, ovvero una forma semplificata di latino utile a tenere conferenze e a comunicare con la comunità scientifica internazionale: un po' come l'esperanto, lingua artificiale già da tempo nota. Quello che si ci chiede è se e fino a quale punto libertà e informatizzazione possano andare di pari passo.

Il computer è sicuramente uno strumento meravigliosamente utile nel campo del lavoro, della creatività personale e della comunicazione. Milioni e milioni sono nel mondo gli utenti di Google, che hanno la possibilità di scambiarsi in tempo reale una quantità impressionante di dati e informazioni. Sotto questo profilo non vi è dubbio che lo strumento informatico abbia dei risvolti democratici di tutto rispetto, poiché la cultura stessa e tutto lo scibile, prima racchiusi in enciclopedie cartacee, sono posti a disposizione di uno sterminato bacino di utenza con un semplice click. Io stesso mi avvantaggio di questa straordinaria tribuna democratica. Temo tuttavia un processo di accentramento che può sclerotizzarsi e degenerare in forme di totalitarismo.

Innanzitutto occorre osservare che nei grandi canali di informazione elettronica  c'è spazio soprattutto per il sapere "standardizzato", ovvero quello consacrato da secoli di tradizione ufficiale: in una parola, il sapere convenzionale.  Del resto, già  Marshall McLuhan, il noto sociologo e filosofo canadese, teorico del "villaggio globale",  criticava le implicazioni negative degli interessi commerciali sottesi all'omogeneizzazione mondiale. A nostro avviso, l'informatizzazione è potere, e, come tale, veicola interessi non solo commerciali.

All'inizio abbiamo parlato di "accentramento". E, come insegna la storia, il potere, più è sovradimensionato, più diventa cattivo verso i subordinati, coinvolgendo anzi i suoi stessi detentori in un unico vortice di folle perversione. Si dirà che la Rete è per sua natura anarchica, sviluppandosi autonomamente da qualsiasi direttiva, ad es., governativa. Ma rimane il fatto che essa tende ad amalgamare e fondere in un tutt'uno le diverse realtà popolari e nazionali.

Con la concentrazione e la reductio ad unum  di queste realtà, c'è da temere seriamente per la stessa sopravvivenza di un'opinione pubblica o società civile, e la lenta ma inesorabile scomparsa del ceto medio depone in questo senso. Se vogliamo fare un paragone storico non possiamo non ricordare ciò che avvenne a Roma tra III e V sec. D.C.: elefantiasi ed iniquità dell'apparato fiscale; scomparsa dell'ordo decurionum (cioè dei notabili cittadini che facevano da quid medium  tra gli umili e i più potenti); drammatica eclissi dello Stato; ed infine l'apparizione e consolidazione di una burocrazia parassitaria e totalitaria, la Chiesa cattolica, negatrice dei più elementari diritti dell'uomo, come la libertà di pensiero.

Certamente le due epoche storiche che abbiamo posto a confronto, (quella romana tardo-imperiale e quella attuale) sono differenti sotto molti aspetti, ma io temo che la tendenza alla concentrazione del potere economico e politico sia drammaticamente simile.

 

 

Il pensiero della Destra.

 

Cosa dice la Destra sul mondo ? Che è una macchina termodinamica retta da una ferrea legge di causa ed effetto, o progressione causale. Ogni evento ha una causa precisa e, risalendo di causa in causa, ci imbattiamo nel nulla. Non a caso, in matematica, tutte le equazioni danno come risultato + o - infinito. Secondo la Destra, gli atomi, ad es. di un tavolo, sono troppo lontani tra di loro, per cui la materia è vuota, ed è solo prodotto di una illusione indotta dai sensi. A rigore, noi conosciamo solamente ciò che ricade direttamente sotto il dominio dei sensi, o che facciamo e creiamo, come dice Giambattista Vico, coniatore della massima del "verum ipsum factum".

Ad es. una persona per noi esiste realmente solo quando la vediamo o la tocchiamo; una volta uscita dalla nostra sfera sensoriale, è come se non esistesse in assoluto. Altro esempio: conosciamo le civiltà antiche dai documenti e dalle rovine che esse ci hanno lasciato; ma praticamente esse potrebbero non essere mai esistite. A proposito viene a fagiolo quanto racconta il grandissimo George Orwell in "1984", quando riporta le parole che l'inquisitore O'Brien rivolge al povero Winston Smith: "Esiste solo ciò che hai in testa".

Ma la Destra non è solipsista, perché annette grandissima importanza agli altri "io coscienti",  quelli componenti la comunità nazionale, cioè i cittadini, nella prospettiva di condividere i valori nazionali. Per la Destra è importante ciò che unisce gli uomini, non ciò che li divide, nella speranza di creare una società il più possibile equa e giusta. Pur non condannando la civiltà, frutto della frenesia umana di possedere e di conoscere, la Destra preferisce la quiete della natura, poiché l'uomo (da "humus", che in latino significa terra) è legato indissolubilmente ad essa.

Il progresso è un falso mito (lo dice anche il grande Franco Battiato), perché il mondo è un circolo, per cui, percorrendolo, si ritorna al punto di partenza. Un po' come succede ad Ulisse che, avventuratosi per sete di sapere in un mondo irto di pericoli, alla fine fa ritorno a casa, dove ritrova gli affetti più veri. Per questo la Destra rappresenta l'umanesimo in alternativa la scienza, specie se applicata. Il segreto è nel cuore dell'uomo, nel suo carattere e nelle ragioni che lo spingono ad agire. Gli uomini di Destra sono in sostanza dei liberi pensatori e parlano, più che di "anima", di "coscienza".

L'anima è solo una forma di energia che pervade il corpo fisico e che è destinata, alla morte di questo, a dissolversi nel ciclo naturale. Da quanto si è detto, la Destra è pensiero etico-politico, ma non solo. Essa ambisce a conoscere tutte le tradizioni culturali, siano esse popolari od esoteriche, al fine di giungere ad una sintesi conoscitiva di tutto il sapere. Ma rifiuta anticaglie come le prove ontologiche sull'esistenza di Dio, o la coppia opposizionale trascendenza/immanenza, tutti concetti che hanno fatto il loro tempo.

In Italia, la Destra, naturalmente, è accanita interprete della tradizione romana, nella speranza di recuperarvi gemme di conoscenza da attualizzare e rendere utili anche nel presente. A questo intento sono dedicati i miei precedenti post, volti ad illuminare, per quanto possibile, aspetti e particolarità di quella tradizione. Nella Destra rientra quindi il filone della tradizione romano-italiana, ma senza le esorbitanze che caratterizzano personaggi come Pomponio Leto o Julius Evola.

 

 

Alcuni concetti romani.

 

Abbiamo esposto i tratti di una visione del mondo che potremmo definire romano-italiana. C'è la Legge di Dio (il fas) che secondo noi è simboleggiata dal Tricolore; e c'è il ius (diritto) che è la Legge umana. Queste due leggi esprimono rispettivamente il piano ontologico dell'Essere e il piano dell'unione con l'Essere medesimo. Il ius non sarebbe quindi storicizzabile, in quanto concetto assoluto, ma dato che è associato all'uomo, lo è anche alla storia, poiché le forme giuridiche mutano incessantemente sotto l'impulso delle sollecitazioni storiche: come diceva Giustiniano, natura semper novas formas deproperat. ( E qui natura va probabilmente vista come conformazione economico-sociale). Questa visione è avvicinabile a quella greca del V sec. A.C. (l'età dei sofisti), dove campeggiano, sempre in ambito giuridico, i sostantivi physis o natura e nomos o convenzione, che rappresentano del pari il primo l'Essere, il secondo il Divenire. 

Nelle fonti giuridiche romane il termine "natura" non è usato in modo univoco, ma ora come "essenza", ora come "conformazione economico-sociale", o "modo di essere", oppure "normalità", "regolarità" o "essenza". Aggiungiamo che, secondo l'Albanese, i giuristi romani erano anche cultori di scienze naturali.

La natura è per i giuristi Romani la "realtà", che si estende anche al di fuori del diritto naturale per comprendere quello positivo. Ciò non deve destare meraviglia. Il ius naturale è inteso da essi come il primo nucleo "normativo" che l'umanità ha in comune con gli altri esseri viventi. Ma è naturale anche il diritto positivo, quello storico, creato dall'uomo, perché a ben vedere, esso discende dalla stessa natura umana, come dice Cicerone. Nei testi dei giuristi classici troviamo spessissimo riferimenti alla natura. Troviamo espressioni quali "lex naturalis", "natura contractus", "natura actionis", "ius naturae", "ratio naturalis", "naturaliter" e "natura rerum" che indica, nel lessico dei giuristi, il mondo nella sua potenzialità creatrice di beni e frutti utilizzabili dagli uomini. Certamente c'è una sovrapposizione di piani, dal fisico al sociale. Una cosa è parlare di "natura montis" o di "natura fluminis", altra di "natura contractus" che indica la funzione giuridico-sociale di una qualsiasi conventio.

Ma il termine "natura" sembra usato dai giuristi come comprendente qualsiasi realtà fisica e sociale, sempre, beninteso, dal punto di vista giuridico. Ma come possiamo rapportare il pensiero romano-italiano col pensiero delle altre Nazioni ? Fermo restando che qui non si vuole assolutamente elaborare una strategia di superiorità culturale, possiamo dire che questo pensiero è sintetico e non analitico. E' una sintesi del reale, semplice ed immediatamente comprensibile, laddove altri popoli e tradizioni si sono avventurati in una spiegazione troppo complessa e ridondante del rapporto tra dio e l'uomo.

 Nel mondo greco, forse sono i presocratici ad investigare con maggior successo i segreti della natura: e infatti Parmenide è il filosofo dell'Essere, Eraclito del Divenire. Buona parte della filosofia greca, da Platone ad Aristotele, è accademica ed offre materia di infinite disquisizioni a turbe di pedanti. La filosofia europea da Cartesio in poi (pensiamo a Spencer, maestro del positivismo), scopre il "sistema", ma la realtà non è sistematica, come, in campo morale, spiega il nostro Ardigò. Anche i grandi sistemi dell'idealismo e del kantismo sono involuti e complicati, mentre, in ambito anglosassone, prevale un piatto utilitarismo e pragmatismo.

Il fas e lo ius sono invece concetti che spiegano il reale in modo evidente e senza troppe parole: l'uno è la dialettica fra gli opposti; l'altro è l' "andare" dell'uomo verso la legge divina o fas. (una delle etimologie proposte di ius è infatti quella che lo ricollega al verbo iungere, unire.) Il "sistema" filosofico romano si fonda su questi due pilastri, ed è unico, non diviso cioè in scuole e sette come avviene per i Greci e molti altri popoli antichi e moderni. Semmai interminabili dispute si hanno sul terreno prettamente giuridico, data la strutturale natura "controversa" del diritto elaborato dalla giurisprudenza classica (ius controversum).

Purtroppo, l'estrema ricchezza del diritto romano antico, diviso in humanum e divinum, l'uno disciplinante i rapporti tra gli uomini, l'altro i rapporti fra gli Dei e gli uomini, è stata travolta dalle guerre civili, determinate dall'enorme afflusso di ricchezza in Roma in seguito alle vittorie trasmarine e dalla corse sfrenata per accaparrarsele. Certo i Romani, non tutti però, erano uomini venali e propensi alla violenza: hanno creato un sistema schiavistico che aveva aspetti tremendi. Ma è sempre Roma che insegna, nel bene come nel male.

 

 

Italia Paese di Dio ?

 

Sia chiaro che tutti i popoli hanno tradizioni religiose molto profonde. Dagli antichi Egizi ai Cinesi (Tao), passando per gli Ebrei, I Musulmani, i nativi d'America e l'India, l'uomo si è sempre domandato chi fosse, soprattutto nei confronti dell'Essere Supremo. In particolare, la religione Indù è stata definita come "il più possente slancio dell'umanità verso il Divino". Abbiamo una grande varietà di religioni, divise in monoteiste (o rivelate) e politeistiche (o naturalistiche).

Il "paganesimo" romano, in particolare, è stato definito come enoteismo, in quanto, data la grande quantità di dei, tutti , per così dire, soggiacciono ad uno solo, Giove, senz'altro la divinità più importante. E il filosofo latino Seneca spesso parla di Deus (al singolare) dandone la seguente definizione: "Dio è tutto ciò che vedi e che non vedi". Non bisogna poi dimenticare il libertinismo filosofico e il deismo (Voltaire), che riconosce una generica forma di Divinità. Degno di un particolare elogio è il filosofo panteista ebreo-olandese Baruch Spinoza, perseguitato dai correligionari per il suo spirito di indipendenza intellettuale.

Ma c'è anche la tradizione esoterica, divisa in moltissimi rami, dai Rosacrociani, agli Ermetici, agli Alchimisti, agli Astrologi, ai Massoni. Oggi la religione più diffusa nel mondo è quella Cattolico-Romana, incardinata sul dogma della Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo, dove il figlio altri non sarebbe che il Cristo risorto, Verbo incarnato, venuto tra gli uomini per salvarli dal male e dal peccato. Ma la Chiesa non è altro che una congregazione di privati che rappresentano solamente sé stessi, non certo il popolo, e i popoli, nel loro complesso.

Allora in che senso l'Italia è il Paese di Dio ? Nei post precedenti abbiamo avanzato una idea, che, occorre ribadirlo, si fonda su degli indizi, ma non ha alcuna pretesa di veridicità: il Tricolore italiano sarebbe il simbolo del "fas", ed i tre colori rappresenterebbero ciascuno una divinità romana. Da quanto abbiamo esposto discorrendo del "fas" e del "ius", risulterebbe il carattere essenzialmente civico di questo costrutto, alieno dalla trascendenza. Ed è proprio il carattere civico di questa "forma religiosa", che la distinguerebbe, che io sappia, da tutte le altre, più o meno impregnate di metafisica e di empiti oltremondani. Ma non si tratterebbe solo di una "forma religiosa": si capirebbero anche le interrelazioni tra scienza, filosofia e religione e si darebbe lo spazio che merita alla "conoscenza tradizionale",  non solo romana.

Ognun vede come questo tipo di sapere sarebbe ben lontano dal "Dio Unico", ma sarebbe espressione della natura delle cose. Se si riuscisse a dimostrare ragionevolmente e senza ombra di dubbio la veridicità di questo simbolismo, allora si riuscirebbe a dimostrare la mai interrotta continuità della Tradizione romano-italiana, che risale a tempi immemorabili, si rafforzerebbe il senso di appartenenza nazionale, e l'Italia acquisterebbe una identità spiccatissima tale da respingere ogni forma di ingerenza politico-economica sul suo territorio.

Perché, alla fine, è il valore che conta, è il valore che sovrasta e vince ogni ideologia . Ho lanciato solo un'idea: al pubblico il giudizio se sia degna, non dico di essere accolta, ma almeno di essere vagliata e criticata.

 

 

Il culto romano.

Ben lungi dal voler esporre sistematicamente la religione romana, forniremo, in questo post, alcune nozioni sul culto privato e pubblico romano, tanto per orientarci.

 - Culto privato. 

Esso affonda le sue radici nei sacra gentilicia, il complesso dei culti afferenti una determinata gens in ambiente ancora preromano. Si è molto dibattuto sui caratteri e le origini delle gentes, se esse fossero un ordinamento giuridico o semplicemente naturale. Le gentes erano comunque dei gruppi parentali che portavano ciascuna lo stesso nome gentilizio, e si consideravano discendenti da uno stesso capostipite, non però facilmente individuabile come nella familia proprio iure, nel pater familias, o nella famiglia allargata (familia communi iure), in un capostipite ricordato almeno storicamente, bensì in un ascendente mitico, che poteva essere un dio od un semidio, come Ercole, Apollo, Minerva, Vèdiove e Giano Curiazio, ai quali veniva tributato un culto comune. Questo è un fatto particolarmente significativo, perché rivela già la presenza, in una fase protostorica, di culti poi fatti propri dallo Stato (res publica).

I Romani consideravano la famiglia in senso stretto come res publica pusilla (piccolo Stato) o come seminarium rei publicae. Di essa, il pater familias, era considerato il signore assoluto, con diritto di vita e di morte sui sottoposti (mater familias, filius familias e servi). Nel culto familiare, come in quello pubblico, sappiamo dalle testimonianze di alcuni autori ( Cicerone, Valerio Massimo), che largo spazio veniva dato all'interrogazione degli dei mediante auspici. Dobbiamo ritenere che nel rigido ordinamento familiare, solo al pater, quasi un magistrato, veniva attribuito questo diritto, di cui egli si giovava assistito, se del caso, da auguri privati, la cui esistenza è affermata da Festo e Varrone.

Sacrum privato per eccellenza è il matrimonio confarreato, definito dal giurista tardo-classico Erennio Modestino, divini et humani iuris communicatio. Il grammatico Servio accenna alla presa degli auspici prima delle nozze, e veniva inoltre celebrato un sacrificio alla presenza del Pontefice Massimo e del Flamine Diale. Col passare del tempo, le nozze confarreate caddero in disuso e vennero sostituite dalla coemptio, nella quale non mancava tuttavia l'elemento religioso, consistente in un sacrificio offerto agli dei dagli sposi.

La commemorazione dei morti era celebrata sia dai sacerdoti dello Stato, sia dai privati. La ricorrenza pubblica si celebrava a febbraio, ed era chiamata Parentalia o Feralia. Le commemorazioni private erano dette rosaria e violatio e tali cerimonie prendevano il nome dall'usanza di ornare di rose o di viole le tombe.

Il Genio (dalla radice gen, generare), nel culto domestico rappresenta la virtù generativa del capo famiglia: in poche parole, il Genio è il nume che garantisce la perpetuità della famiglia. Ogni individuo ha il suo Genio, che lo accompagna nella vita e finisce con la morte di lui. Nella religione pubblica è noto il Genius publicus populi romani.

Ancora qualche cenno a divinità tutelari: Lari e Penati. Il Lare è inteso come protettore della famiglia e ha carattere funerario. Esso personifica l'antenato della famiglia in qualità di protettore di coloro che vivono intorno al medesimo focolare e nei limiti del medesimo fondo. I Penati sono gli spiriti tutelari dei viveri di riserva del gruppo familiare. A imitazione dei Penati privati, con lo sviluppo della vita politica di Roma, si costituirono anche i Penati pubblici, che venivano venerati nel tempio di Vesta. 

 

  - Culto pubblico

Mentre il culto privato si celebra a vantaggio di gentes, familiae o di raggruppamenti minori (collegia, vici, pagi, sacelli), il culto pubblico riguarda tutta la comunità romana nel suo insieme. A Roma il sacerdote è colui che compie l'azione sacra. La religione romana non è rivelata e, di conseguenza, non ha una dottrina da diffondere tra il popolo. I sacerdoti pubblici del popolo romano sono divisi in due grandi categorie: coloro che fanno parte dei collegi ufficiali e coloro che sono ascritti ai sodalizi o confraternite.

I pontefici, riuniti in un collegio sotto l'autorità del pontefice massimo, erano degli esperti di diritto sacro, che avevano la funzione di proteggere le più vetuste tradizioni religiose della città, e al contempo di adattarle allo sviluppo sociale della medesima, mirando a conservare la pax deorum, cioè l'armonia tra la città e i suoi dei.

Facevano parte del collegio pontificale anche il rex sacrorum , sorta di fossile del vecchio rex, relegato a funzioni puramente religiose, i 15 flamini, ciascuno addetto al culto di una data Divinità, e le vergini vestali, tutti nominati dal pontefice massimo. I pontefici prendevano parte al culto di quelle divinità legate all'esistenza di Roma, cioè Vesta, i Penati e la Triade capitolina.

Gli auguri erano in Roma gli esperti della divinazione. Essi costituivano un collegio di 16 membri, e la loro scienza riguardava l'interpretazione del volo e del canto degli uccelli.

Gli aruspici erano indovini etruschi, che giunsero a costituire sotto Claudio un collegio di 60 membri, ma non fecero mai parte dei sacerdotes publici populi romani Quiritium. L' etrusca disciplina godette di grande prestigio presso i Romani, sebbene fosse considerata una dottrina straniera, e quindi essa veniva sovente consultata, in occasione soprattutto di prodigi straordinari. L' extispicina (esame delle viscere) era la sezione della disciplina etrusca più usata dai Romani, e consisteva nell'esame del fegato della vittima sacrificale.

I quindecemviri sacris faciundis, erano un collegio che aveva il compito di interpretare, dietro ordine del Senato, i Libri Sibillini, specialmente in caso di calamità pubbliche.

I sodalizi o confraternite erano cinque, ma ci occuperemo dei maggiori tre. Gli arvali erano un sodalizio a carattere agrario di 12 membri, con a capo un magister scelto per elezione annuale; i salii (da salire, saltare), parimenti in numero di 12, derivavano il loro nome dalle danze sacre e magiche che eseguivano nelle cerimonie cui partecipavano; infine, i feziali erano i titolari di una vera e propria branca dell'ordinamento giuridico romano: il ius fetiale, ovvero di quello che noi chiameremmo il diritto di guerra e di pace (ius belli ac pacis). Patrono del sodalizio era Giove. Il dovere dei feziali era triplice: condurre le trattative prima dell'alleanza o della guerra; stringere il trattato di pace a guerra conclusa e vigilare sul rispetto del trattato (foedus). Sentiamo parlare per l'ultima volta del cerimoniale dei feziali nel 175 D.C., sotto Marco Aurelio.

Le festività pubbliche erano distribuite nel Calendario, che rimonta nella sua fase più antica al periodo regio. Osserviamo che, nonostante ci siano indubbie interferenze tra culto privato e culto pubblico, gli dei trovano venerazione in questo, e quindi i significati loro attribuiti, sia con riguardo alla natura sia con riguardo all'uomo, sono materia di ius publicum.

 

Ius privatum e ius publicum

Riprendiamo la riflessione sul rapporto fra diritto pubblico e privato nella storia di Roma, con riguardo all'interrogativo da tutti posto sul perché i Romani elaborarono così poco il loro diritto pubblico, tanto da destare l'impressione che, per essi, il vero e unico diritto fosse quello privato.

L'unica definizione di ius è quella lasciataci dal giurista Celso, vissuto nel II sec. D.C.: ius est ars boni et aequi, "il diritto è l'arte del buono e dell'equo", di cui ci occuperemo altrove e che nulla dice sulla problematica qui affrontata.

Più utile è un passo di Ulpiano, là dove dice che il diritto è pubblico o è privato; vi sono infatti cose utili pubblicamente o privatamente.(utilitas singulorum).

Ma c'è in realtà un vero discrimine tra i due diritti ? Per certi versi, sembra che il diritto privato assorba quello pubblico, a tal punto che questo può apparire una sua propaggine o comunque una forma residuale. Vediamo il perché. In effetti, il singolo poteva partecipare alla vita sociale sia come privatus (da una radice che significa "privazione"), sia come civis ovvero come parte di quel gruppo denominato populus romanus. In entrambi i casi viene in luce il singolo, con i suoi interessi, che possono essere privati, cioè legati esclusivamente alla sua sfera personale, o pubblici, in condivisione con gli altri membri del gruppo.

Questo perché i Romani non conoscevano la personificazione moderna dello Stato, con i suoi tre elementi: popolo, sovranità o governo, e territorio. In sostanza, secondo i Romani, il popolo era un tutto composto da individui concreti: ne risultano istituti ambigui come l'actio popularis, (popularis in latino significa paesano, compaesano), strumento messo a disposizione di un qualunque componente del popolo per tutelare interessi di rilevanza comune: in alcuni casi il ricavato della multa era versato nella cassa pubblica; altre volte era assegnato allo stesso attore. 

I Romani conoscevano centri di imputazione di relazioni ed obblighi giuridici, tra cui ricordiamo l'Aerarium Saturni, o, in epoca imperiale, il Fiscus Caesaris; ed il popolo  è tra questi: solo che non è "persona", o configurazione giuridica astratta al pari del moderno "Stato".  E così è sempre il singolo, sia pure con modalità diverse, che viene in considerazione, a differenza del diritto "borghese", dove il soggetto per eccellenza del diritto pubblico è lo Stato-persona.

E tuttavia giuristi di diritto pubblico possono essere considerati gli stessi uomini politici (ora magistrati ora sacerdoti) che, nel periodo repubblicano, si sono occupati delle relative problematiche: ricordiamo Gaio Sempronio Tuditano, autore di un De consulum potestate, e Giunio Congo Graccano, che scrisse un De potestatibus. Ma anche lo stesso Marco Terenzio Varrone, che fu console, si occupò delle cose umane e divine: scrisse infatti dei Divinarum atque humanarum rerum libri. Nel campo religioso si segnala l'augure Marco Messalla Rufo, autore dell'opera De auspiicis.

Ma si possono svolgere ulteriori considerazioni in merito all'interrogativo che ci siamo posti all'inizio di questo scritto. Ad esempio, si può osservare come il percorso di "unione con la legge divina" (tale, a quanto ci consta, è il significato di ius), avvenga più favorevolmente in ambito individuale o privato, lontano dal clamore delle assemblee comiziali o dal fragore della guerra. E' stato detto giustamente che il diritto pubblico era impregnato di politica e di religione, e, in effetti, lo svolgimento del ius publicum nel passaggio tra Repubblica ed Impero mostra una impressionante mancanza di senso giuridico, come esclama esterrefatto lo storico Tacito, trasferendosi dai comitia populi  e dagli accordi tra i magistrati ed il Senato, alla fattualità violenta dei campi di battaglia.

Il magistrato repubblicano, era senz'altro un homo publicus (magistrati publici populi romani) , che dopo aver terminato il suo mandato, ridiventava un privatus, entrando nel Senato. A proposito di questa istituzione, la letteratura giuspubblicistica romana, per quel che ne sappiamo, non la menziona tra gli "organi" del ius publicum. E tuttavia abbiamo la testimonianza di Plinio il Giovane, che parla di un mos senatorium come parte del diritto pubblico. Entrambi il magistrato repubblicano ed il Princeps erano dei privati investiti di pubblici poteri, ma la differenza sta in ciò, che mentre il primo veniva eletto dal popolo, configurandosi così un vero e proprio vincolo giuridico fra eletto ed elettori, il secondo mancava di tale vincolo, ed era quindi un semplice privato, avulso da qualsiasi rapporto di investitura da parte del popolo.

Quanto alla religione, alle cose sacre, è vero esse facevano parte del diritto pubblico, ma non dobbiamo dimenticare che anche il ius privatum aveva i suoi sacra.

Edoardo Igini

L'identità italiana.

Il rapporto tra Roma e l'Italia è controverso, a tal punto che possiamo parlare, ma solo fino ad un certo punto, di dualismo. Roma infatti, dopo aver unificato l'Italia, si è volta a creare un Impero universale e sovrannazionale, comprendente il bracino del Mediterraneo e buona parte del Continente europeo, mostrando una vocazione internazionalista ed imperialista. Collegare quindi univocamente l'Italia a Roma non è storicamente credibile. E tuttavia dobbiamo constatare che Roma è stata la città-stato che ha ridotto ad unità la Penisola, dandole una uniformità che va dall'assetto architettonico ed urbanistico delle sue città, alla lingua, al diritto ed anche alla religione politeista, che soppiantata dal Cristianesimo, ha dimostrato nel corso dei secoli una straordinaria vitalità, influenzando gli operatori culturali di tutte le arti. (anche, dobbiamo dire, di altri Paesi).

A proposito del diritto noto che in Italia vige, certo modificato, il diritto romano, con lievi apporti del diritto longobardo. A proposito della lingua, osservo che il latino non è mai morto, trasformandosi nelle lingue romanze, tra le quali l'italiano spicca per la maggiore conservatività nei confronti della lingua latina. Ma l'Italia è un mosaico di lingue e di regionalismi, venuti alla ribalta dopo la fine dell'unità politica imposta da Roma. Vi sono molte lingue, chiamate genericamente dialetti, che hanno una loro specificità nei confronti del toscano-fiorentino, cioè dell'italiano. Ma è sintomatico che queste lingue non abbiano mai messo in discussione il primato dell'italiano, accettandolo come lingua-guida.

Ciò accade anche per quelle lingue, come il sardo, il ladino ed il friulano, derivato dal latino di Aquileia, che non sono studiate ed inquadrate nella filologia romanzo-italiana, ma costituiscono vere e proprie minoranze linguistiche, protette come tali. Si può dire che Roma è stata l'unica città-stato ad aver unificato l'Italia, superando la resistenza delle altre. La peculiarità del modello politico italiano sta appunto nella pluralità delle città-stato, e ben a ragione l'Italia è stata definita "Il Paese delle cento città". Così nascono e si sviluppano in età medievale, illustri ordinamenti politici, come Venezia, Firenze, Genova e via elencando.

L'Italia è suddivisa grosso modo in tre blocchi od aree geografico-culturali. A Nord abbiamo il blocco celtico-germanico, che ha risentito dell'influsso delle etnie provenienti dal Nord Europa, tanto che la Lombardia significa "Terra dei Longobardi"; al centro il blocco romano-italico, dove è nata la lingua italiana, anticamente popolato da genti come i Falisci, gli Osci ed i Sanniti; infine abbiamo l'area meridionale, o greco-mediterranea, impregnata di cultura greca. Nonostante le indubbie diversità tra le tre zone, preminente rimane indiscutibilmente l'impronta romana e latina, che le riduce ad un comun denominatore.

L'identità italiana è dunque romana, ma questo non significa negare gli apporti delle altre civiltà e culture che hanno contribuito ad edificare il Paese Italia.

 

 

Cultura italiana e cultura nord-europea.

Quali sono le caratteristiche della cultura italiana nei confronti di quella nord-europea ? Premetto che l'Italia, insieme alla Grecia, è stata la culla della civiltà classica, tanto più che i Latini, con la loro "humanitas", sono riusciti a fondere in unità il loro patrimonio culturale con quello greco. E se è vero che i Romani hanno attinto a piene mani dalle lettere greche, peraltro non senza originalità, e che la loro letteratura inizia con una traduzione dell'Odissea di Livio Andronico, è altrettanto vero che i Greci furono studiosi di diritto, soprattutto in età bizantina. Fatta questa premessa, entriamo "in medias res".

Quando si parla di arte italiana, ci si riferisce inevitabilmente al Rinascimento, anche se geni creativi non sono mancati nelle età successive. E l'arte del Rinascimento si caratterizza per la ricerca dell'equilibrio classico e della perfezione formale, tanto nelle arti visive quanto nella poesia. Artisti come Raffaello, Sandro Botticelli, Michelangelo, Donatello ecc. rappresentano appunto lo sforzo, nella pittura come nella scultura, di rendere la compostezza classica, e nell'architettura ricordiamo i nomi di Leon Battista Alberti e di Filippo Brunelleschi. Nel campo musicale, chi non ricorda la Camerata de' Bardi e le sue teorie sulla tragedia greca, che diedero origine a quel fenomeno universalmente noto come Opera?

Nell'Opera si rivela il carattere popolare della musica italiana, pregevole, ma senza i grandi geni individualisti del Nord-Europa. La cultura nord-europea è  più incline ad un realismo a tratti grottesco e drammatico, che si svela, ad es., nella scuola di pittura fiamminga. Beninteso, un Caravaggio, con la sua tecnica chiaroscurale, dà origine al naturalismo, che è quanto dire alla pittura moderna, ma dobbiamo anche dire che a lungo l'arte italiana è rimasta prigioniera degli stilemi classico-cristiani con esiti non raramente stucchevoli; questo dipende anche dalla committenza e dalle ideologie dominanti in Italia, in primo luogo il Cattolicesimo.

A lungo andare questa cappa religiosa impedirà il libero dispiegarsi del talento artistico verso nuovi ed originali esiti: pensiamo all'impressionismo francese. Stesso discorso va fatto per la letteratura, che inizia col genio universale di Dante Alighieri; egli espresse una poetica personalissima, non più eguagliata in Italia. Altro grande scrittore è Giovanni Boccaccio, con la sua raccolta di cento novelle detta Decamerone: egli sancì, nonostante sia stato autore anche di romanzi, il primato della novella sul romanzo in Italia. Innumerevoli sono le raccolte di novelle, che si susseguirono: e in tutte è protagonista il volgo, il popolino sguaiato, che sbarca il lunario tra istinti mondani e anti-clericalismo. Petrarca fu sommo poeta in volgare; ma secondo me ebbe il difetto di scrivere troppo in latino, assecondando acriticamente la moda umanistica. Egli ebbe una pletora di proseliti, anche di grande valore, come Angelo di Costanzo e Luigi Tansillo

A nostro avviso la novella, genere narrativo più semplice del romanzo, fu privilegiato in Italia soprattutto per la mancanza di una borghesia intraprendente e cosmopolita, che ha prodotto In Francia, Inghilterra, Germania  Russia una prodigiosa messe di romanzi caratterizzati da trame avvincenti ed introspezione psicologica: un vero trionfo per la cultura umanistica.  Per la mancanza di un epos nazionale unitario, nemmeno il romanzo storico poté attecchire in Italia: cercò di porvi rimedio il Manzoni con "I promessi sposi". Altri romanzieri di spicco dell''800 sono Ippolito Nievo, Ugo Foscolo, Niccolò Tommaseo, Ugo Iginio Tarchetti e Giuseppe Rovani. Bisogna però attendere la fine dell'Ottocento e il Novecento per assistere ad una discreta fioritura del romanzo con Federico De Roberto, Giovanni Verga, Antonio Fogazzaro, Gabriele D'Annunzio, Pirandello, Italo Svevo e Grazia Deledda, che, quasi tutti, non dimenticarono di coltivare il tradizionale genere della novella. Questa fioritura prosegue e si sviluppa nel Novecento, grande laboratorio di sperimentazione narrativa, sotto la guida dei grandi nomi del romanzo russo, inglese, francese e americano.

In conclusione, se pur esiste un tratto distintivo della cultura italiana, esso va trovato nel dominio plastico delle forme, soprattutto nella scultura, e nel connubio arte-conoscenza: in questo senso non si può non ricordare Leonardo da Vinci, non filosofo, non scienziato ma empirico geniale che seppe fare della pittura la vera filosofia. Gli artisti italiani del Rinascimento, considerano le arti visive, e soprattutto la pittura, come un vero e proprio modo di conoscere la realtà: abbiamo fatto l'esempio di Leonardo da Vinci, ma potremmo citare anche Piero della Francesca, notevole matematico, Filippo Brunelleschi che, come architetto, ebbe anche interessi matematici e Leon Battista Alberti, padre della prospettiva moderna e raffinato uomo di lettere. Da non dimenticare il cinquecentesco Benvenuto Cellini, incisore, orafo e scultore. Degno di nota è l'architetto e trattatista Guarino Guarini, che sembra anticipare la teoria ondulatoria della luce. Quello che abbiamo chiamato "dominio plastico della materia", prosegue e si rafforza col barocco ed il neo-classicismo: citiamo solo i nomi di Bernini, Borromini, Andrea Palladio e Antonio Canova. L'arte italiana vuole conoscere plasmando la materia grezza e trarre da essa la perfezione dell'idea.

 

 

Cosa è la Destra.

In una precedente notizia, abbiamo tratteggiato brevemente il pensiero della Destra. Mi sembra opportuno ritornare sull'argomento per approfondirlo. Cosa è la Destra? E' necessario chiarire subito che la Destra non può essere un partito politico, perché è lo spirito democratico e patriottico di un Paese. Essa ha simpatie popolari ma rispetta le stratificazioni sociali così come si sono formate nel corso dello sviluppo storico, nella convinzione che quelle rispondano all'ordine delle cose.

Il pensiero politico della Destra è inter-classista, e riposa sul principio della solidarietà sociale fra i diversi strati sociali: in due parole repubblica e socialdemocrazia. Non hanno nulla a che spartire con la Destra le grandi ideologie e le religioni ufficiali: nazi-fascismo, comunismo, liberalismo, nazionalismo, cattolicesimo, ecc. si situano tutte ben oltre l'orizzonte della Destra, che è idealista ma non spiritualista, deprecando del pari il materialismo ed il sensismo.  Se vogliamo dare una definizione di Destra, teniamo fermo questo punto: essa è Umanesimo tradizionalista e, come tale, è una forma di cultura alternativa/concorrente rispetto alla scienza, specie se applicata, amando più la natura.

La Destra trae il suo alimento e la sua linfa vitale dallo studio delle tradizioni di tutti i popoli e anche, sebbene criticamente, da quelle cosiddette "esoteriche".  Quale è la differenza con la sinistra? Che la sinistra è la massa sempre avida di novità, oggi mondialista e favorevole alla globalizzazione. Secondo la Destra, la vera identità di una persona è data dal sentimento di appartenenza alla propria nazione: lingua, storia, cultura, beni comuni sono tutti elementi formanti di questa identità.

Al di fuori di essa c'è solo caos identitario, lo smarrimento di tutti i valori e della stessa coscienza umana. Per questo, gli uomini di Destra hanno sempre preferito il diritto pubblico al diritto privato: nel primo è garantita la partecipazione di larghi strati della popolazione; nel secondo, che oggi furoreggia, si garantisce solo l'appagamento di interessi personali.

E siccome la Destra è tutta per la Comunità nazionale, non può che criticare aspramente la brutta piega che negli ultimi decenni hanno preso gli egoismi privatistici, con intere burocrazie finanziate da fondi privati che sfuggono ad ogni controllo pubblicistico. E, per finire, la Destra, così come rispetta il potere costituito, non essendo né rivoluzionaria né anarchica, così si aspetta che questo rispetti i diritti fondamentali della persona, a qualunque classe sociale essa appartenga.

 

 

L'uomo e la natura.

Spiegare il rapporto tra uomo e natura non è cosa facile. Innanzitutto, il problema si pone eminentemente nel mondo occidentale, specialmente dai Romani in poi. E' noto infatti che le altre culture sono o sono state legate molto più alla natura. Pensiamo ai popoli africani, agli Aborigeni australiani, agli Indios dell'Amazzonia, ai Nativi d'America ecc. Tutte popolazioni in via di estinzione a causa dell'invadere della cosiddetta "civiltà". Con la civiltà, l'uomo occidentale ha voluto attuare il suo desiderio di conoscenza e di potenza.

Pensiamo solo al pensiero inglese da Ruggero a Francesco Bacone e oltre, che ha teorizzato esplicitamente il dominio dell'uomo sulla natura. Sul fronte opposto abbiamo ad, es, l'economista francese Morelly e il filosofo svizzero Jean Jacques Rousseau, che hanno criticato recisamente il progresso come fonte di ogni ingiustizia e diseguaglianza. Gli stessi giuristi romani, come Ulpiano, hanno parlato di uno ius naturale, comune agli uomini e agli animali, antecedente alla civilizzazione, introdotta dal ius gentium, i cui istituti sono i negozi commerciali, la fondazione degli Stati e quindi la guerra. La prospettiva giusta è, probabilmente, quella romana.

I giuristi romani, infatti, hanno colto il problema in una visuale dinamica, che, senza rinnegare lo stato di natura, prende atto dell'evoluzione della storia umana. Nemmeno bisogna illudersi che la natura sia un paradiso felice, cui ritornare come ad una perduta "età dell'oro": la vita secondo natura è infatti severa, richiede sforzi e fatica per sopravvivere; l'uomo è in completa balìa degli elementi. E tuttavia la civiltà umana è destinata a fallire, schiacciata dal peso delle sue sempre più insanabili contraddizioni. Possiamo dunque dire che l'uomo si illude creando la civiltà, con i suoi agi, i suoi vantaggi e le sue aspettative di benessere. Il cerchio si chiude, e l'uomo è condannato a ritornare alla natura, che è contemporaneamente madre e matrigna: con una mano dà e con l'altra toglie.

La legge di natura è tale da regolare perfettamente gli equilibri demografici delle popolazioni, che il progresso ha disastrosamente infranto, provocando milioni di vittime. Nel vano tentativo di migliorare la sua condizione, l'uomo occidentale si è ritrovato in un labirinto di violenza e di non-senso, inseguendo sogni assurdi e profitti  illeciti. In natura, bisogna distinguere popolazioni da popolazioni: vi sono tribù francamente ignoranti, ma ve ne sono anche di intelligenti, come i Dogon del Sudan, con la loro raffinatissima cosmologia.

Mio scopo non è fare l'apologia della natura come "stato ideale" per l'umanità: ho solo cercato di ragionare oggettivamente. E oggettivamente posso dire che la cosa migliore per l'uomo è rispettare la natura, usando  tecnologie basate sui suoi stessi elementi: eolica, solare ed idrica. L'istinto di allontanarsi dalla natura si è rivelato, e sempre più si rivelerà, come una sorta di "scherzo del destino": perché, alla fine, la natura è tiranna con l'uomo: non tollera che egli la rinneghi. La stessa parola "uomo" deriva da humus , che in latino significa "terra".

 

 

La cultura romana.

Questo post è dedicato alla cultura romana. Come ben sappiamo i Romani non hanno mai avuto miti cosmogonici come i Greci e numerose altre civiltà, ma solo miti civici, a tal punto che facevano coincidere l'inizio delle cose dal mito di fondazione da parte di Romolo, primo Re di Roma. Oggi gli storici tendono ad essere scettici sulla storicità della figura di Romolo, e preferiscono la narrazione secondo la quale Roma non nacque in un momento preciso (753 A.C. secondo la datazione varroniana), ma sorse gradualmente dall'aggregazione dei "vici" e dei "pagi" situati nell'area dei Sette Colli. Ma quali sono le caratteristiche più prettamente culturali della Latinità? Si è detto che i Romani hanno fatto molto poca teologia, ma questa affermazione, almeno in parte, è da rivedere. Certo, a livello di autori, i Greci ne hanno fatta molto di più: pensiamo ad Aristotele, Platone e, nella tarda antichità, all'emanatismo plotiniano; essi hanno creato veri e propri sistemi teologici, a differenza dei Latini, che hanno parlato di Dio più come eruditi ed antiquari che come teologi.

Ricordiamo i 16 Libri rerum divinarum di Varrone Reatino, il De Diis del dotto pitagorico Nigidio Figulo, i libri De natura deorum di Cicerone, il trattato "Quaestiones naturales" di Seneca, dedicato alla meteorologia, ma contenente elementi di teologia, il "De rerum natura" di Lucrezio, poema finalizzato a sradicare le superstizioni religiose, e a divulgare il pensiero di Epicuro; qualche saggio platonico di Apuleio di Madaura, che ebbe fama di taumaturgo e mago. Nella tarda antichità, si segnala la figura del commentatore platonico Ambrogio Teodosio Macrobio, autore dei "Saturnalia", raccolta di citazioni dotte di autori precedenti. Ricordiamo anche un Messalla, giuspubblicista repubblicano, che scrisse dei libri "De auspiciis". Ma la vera teologia romana sta nell'interpretazione delle Triadi, come abbiamo cercato di dimostrare, e nel Calendario, diviso in giorni fasti e nefasti, che tanto ha inciso sulla vita politico-costituzionale della Civitas romana.

Se in alcun campo del sapere, come è stato detto, i Latini riuscirono a raggiungere il livello dell'Ellade, essi in compenso furono i creatori del diritto, che, a ben vedere, è una visione del mondo, specie se associata al concetto di "fas". Nonostante la praticità e l'empirismo della loro concezione della vita, e l'invadere della corruzione e della violenza a partire dalla tarda repubblica, la cultura romana non è mai stata piattamente materialista ed utilitarista, come quella anglosassone, ma è stata contrassegnata da un forte idealismo, come testimonia il complesso rapporto tra "fas" e "ius", su cui ci siamo intrattenuti in numerose notizie. Roma può vantare una letteratura di tutto rispetto, sia nel campo della poesia sia in quello della prosa, dove spiccano particolarmente gli storici, da Sallustio al tardo Ammiano Marcellino: il genere della storiografia era il più confacente alla mentalità romana, attenta ai fatti e alla narrazione edificante di exempla morali, ma non meno alla fustigazione dei vizi ed incline al più cupo pessimismo, come avviene in Tacito.

Nel clima della restaurazione augustea, troviamo Tito Livio, celebratore della grandezza romana non meno di Virgilio nella poesia: il famoso detto "parcere subiectis et debellare superbos", può essere visto come il manifesto dell'imperialismo romano. Nelle arti, specie nell'architettura, i Romani raggiunsero livelli di una certa originalità; ma bisogna anche dire che spesso, dietro alla realizzazione di edifici pubblici come il Pantheon, o il ponte sul Danubio di età traianea, c'erano ingegneri ed architetti  ellenistici. Possiamo allora dire che la più originale creazione del genio latino è il diritto: un insieme di rapporti sociali, così come si trova sistemato nel Digesto giustinianeo, che ha un valore contemporaneamente storico: esso ci dà conto della nascita, dell'evoluzione e dell'involuzione di una società millenaria: dagli inizi alla disgregazione finale.

Da questo punto di vista, il Digesto è un unicum della letteratura mondiale, forse il testo più importante in assoluto che sia stato mai scritto. Ma i Romani eccellevano nel diritto privato e la mancata elaborazione normativa del diritto pubblico, specie in età imperiale, non è l'ultima tra le cause che portarono al collasso dell'Impero in Occidente.

 

 

Notizie sul fascismo.

Questa notizia è dedicata al fascismo, alle sue origini, alla sua cultura e alla sua caduta. Perché nacque il fascismo? Dopo la fine del primo conflitto mondiale, la società italiana sprofondò nel caos. I reduci di guerra venivano insultati dai comunisti, provocando una reazione opposta e contraria. Ma il fascismo trasse alimento soprattutto dalle contro-rivendicazioni della borghesia agraria che si sentiva minacciata nelle sue prerogative dalle agitazioni delle classi popolari. Si tratta dunque di un chiaro caso di lotta di classe, con la finale vittoria della borghesia, appoggiata dai fascisti. La responsabilità maggiore dell'avvento del fascismo come movimento prima politico poi dittatoriale, è nella complicità della Monarchia, che invece di reprimere risolutamente una forza che si appalesava vieppiù come anti-liberale ed anti-democratica, si lasciò coinvolgere in una sorta di Diarchia, con il Duce effettivo detentore del potere supremo. Molti furono uccisi da una parte e dall'altra: basti ricordare i fatti di Sarzana, o il delitto Matteotti o l'omicidio dei fratelli Rosselli.

Mussolini all'inizio faceva professione di ateismo, atteggiamento che si rimangiò ben presto, cercando e trovando un accordo con la Chiesa. Si dice che il fascismo fu una forma di socialismo: io non sono d'accordo. Anche la Carta del Lavoro del 1927 è in funzione chiaramente padronale. In realtà il fascismo fu una lampante manifestazione di quell'atteggiamento oligarchico-classista che, in politica, ha sempre contraddistinto l'Italia. Dopo queste brevi note sulla nascita del fascismo, passiamo alla sua cultura, spesso sottovalutata se paragonata a quella della "sinistra" con i suoi maestri di pensiero, da Carlo Marx fino a Jean Paul Sartre ed oltre. In filosofia è indiscutibile l'importanza di un filosofo come Giovanni Gentile, che rivoluzionò l'istruzione pubblica, conosciuto anche come padre di quella corrente idealistica che va sotto il nome di "attualismo". E' anche vero che furono pochi i cattedratici e gli uomini di cultura che rifiutarono obbedienza al regime fascista: i più salirono, come si suol dire, sul carro del vincitore. Di sentimenti antifascisti fu il rivale ideologico di Giovanni Gentile, l'abruzzese Benedetto Croce.

E' noto che un drammaturgo del rango di Luigi Pirandello, autore anche di romanzi e novelle, e premio Nobel per la letteratura nel 1936, stracciò la tessera del partito fascista. Peraltro non risulta che abbia mai preso le distanze da questo, con critiche esplicite. Più controverso fu, almeno agli inizi, il rapporto tra il Capo-scuola del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, autore del romanzo "Mafarka il futurista", e il regime, rapporto che sembrò acquietarsi in progresso di tempo. Generalmente i pittori futuristi, come Balla, Boccioni e Depero, si fanno rientrare nell'alveo della cultura fascista, con la loro esaltazione delle macchine, della velocità e della guerra, "igiene del mondo", e il loro disprezzo delle forme immobili tradizionali, quelle, per intenderci, custodite nei Musei. Ancora più controverso fu il rapporto col fascismo avuto da Gabriele D'Annunzio, tanto da far dubitare seriamente di poterlo inserire nel novero degli scrittori "fascisti". A base di ciò sta probabilmente il motivo che D'Annunzio, geloso della sua autonomia intellettuale, non poteva entrare come intellettuale "organico" nel partito.

In architettura abbiamo un artista di prestigio, Marcello Piacentini, con la sua concezione razionalistica delle forme degli edifici, concezione che domina interi quartieri, come l'EUR a Roma. Ma un regime politico, per di più dittatoriale, non poteva dimenticare il fondamentale ruolo del diritto nella società. Abbiamo così giuristi di grande valore, come quel Vittorio Scialoja, grande studioso del sistema civilistico, che tradusse in italiano la colossale opera del giurista tedesco ottocentesco F.K. von Savigny, intitolata "Sistema del diritto romano attuale". Ed inoltre abbiamo l'apprezzata redazione del codice civile del 1942 e il codice Rocco. Ma la figura di Benito Mussolini? Egli fu un mediocre saggista e scrittore, e le sue idee politiche vertevano in sostanza sulla rifondazione dell'Impero romano, di cui era fanatico ammiratore. In sostanza tutta la sua carriera di Statista, se lo possiamo chiamare così, fu improntata ad una unica, folle, idea: quella di preparare il popolo italiano ad assumere la guida di un rinnovato Impero universale.

Sappiamo tutti come andò a finire: guerra, atrocità ed infine la sconfitta. Alla fine lui e i suoi fedelissimi, costituita la Repubblica di Salò, finirono per fare i manutengoli di una potenza straniera, ex-alleata, la Germania nazista. Fu quindi un traditore; ma attenzione a non dimenticare che traditori furono altresì i comunisti, che  appoggiavano le potenze straniere dell'Est, come la Jugoslavia di Tito e, in ultima analisi, l'Unione Sovietica. Che dire di più? Idea centrale della cultura fascista fu quella del culto della virilità combattente; sorvoliamo sulle numerose amanti che ebbe Mussolini e sui figli illegittimi fatti sparire internati nei manicomi: Mussolini fu una persona profondamente disonesta.

 

 

 

Continuità e fratture nel passaggio tra Evo antico ed Evo moderno in Italia.

Nell'arco di tempo compreso tra il 476 D.C. e la nascita dell'Età moderna nel 1492 ( ma sono solo date convenzionali e meramente indicative), è dato registrare sia elementi di continuità sia elementi di frattura, che si intrecciano tanto strettamente da rendere difficile una loro netta individuazione. E' un dato di fatto che l'Imperatore Costantino nel 313 D.C. scese a patti con il Cristianesimo, proclamandolo religio licita. Era la presa d'atto di una situazione che vedeva ormai trionfare il Cristianesimo sulle altre forme religiose dell'Impero, come il culto di Cibele e la religione mitraica, nonché sulla prisca religione romana. La cristianizzazione aveva preso piede soprattutto nelle grandi metropoli, come Roma, Antiochia ed Alessandria d'Egitto, popolate dalle grandi masse volubili ed incostanti.

Nonostante gli sforzi del clero, ancora in età tarda persistevano popolazioni dedite a riti "pagani", e nella stessa Roma, ancora nel 496 D.C., si poteva assistere all'antichissimo rituale dei Lupercalia Nei secoli  V e VI d.C, troviamo in attività membri dell'aristocrazia senatoria rimasti fedeli agli antichi Dei, come Quinto Aurelio Simmaco e Vettio Agorio Pretestato. Ma come giudicare complessivamente la cristianizzazione di Roma ? E' frattura o continuità ? Probabilmente ambedue. E' frattura, perché si afferma una religione esclusivista e intollerante nei confronti delle altre, e, più in generale, delle diverse manifestazioni di pensiero; ed è continuità perché il Papa è un teocrate, né più né meno dell'Imperatore romano,  ad un tempo  capo politico-militare e Pontifex Maximus. Già nel II secolo D.C.,  Antonino Pio poteva affermare: "Io sono il padrone del mondo". E nel III sec. D. C. si situa la figura di Aureliano, che introdusse in Roma il culto del Sol Invictus, caro all'esercito, per rafforzare l'assolutismo imperiale. Indubbiamente una mentalità come quella di Sant'Agostino, che nel De civitate dei  divide con una buona dose di manicheismo l'umanità in due parti, una buona (la comunità dei fedeli in Cristo), ed una cattiva (tutti gli altri), non sarebbe stata condivisa da un Romano di età classica; ma anche qui bisogna ricordare che la Roma pagana si è sempre sentita investita della missione di civilizzare il mondo e pacificare la barbarie.

E se i Papi hanno sempre cercato di distruggere le vestigia antiche, è noto che fu grazie al lavoro degli amanuensi che noi possiamo leggere i capolavori della letteratura latina. Roma contro Roma? Cenni di continuità si colgono altresì nella struttura politico-sociale della Roma medioevale e della prima età moderna, divisa in grandi famiglie nobiliari (I Farnese i Barberini ecc.)  sempre in lotta tra loro per conquistare il soglio papale; questa struttura è speculare a quella delle antiche gentes , con i loro siti fortificati,  sebbene esse siano scomparse fin dal III sec. D.C.  Anche gli interessi culturali italiani sembrano riflettere quelli latini: abbiamo tanta storia e politica ( Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Paolo Sarpi, Ludovico Antonio Muratori ecc.); tanta erudizione e grammatica; tanto diritto (Glossatori, Commentatori,  Scuola di Napoli ecc.), analizzato filosoficamente da Giambattista Vico e non solo; c'è l'interesse per la natura, non di rado affiancato dalla dottrina astrologica; e infine troviamo anche la teologia umanistica e sincretistica di Marsilio Ficino, versato soprattutto nel platonismo, e di Giovanni Pico della Mirandola, sempre però nell'ottica di far risaltare l'eccellenza del verbo cristiano. Non poteva essere altrimenti: ormai la teologia era da lungo tempo sentita come campo privilegiato del pensiero cristiano-cattolico.

 

 

Alcuni concetti romani.

Proseguiamo la nostra analisi del lessico giuridico romano. Esamineremo il significato di tre vocaboli: mos, res  e factum , tutti di natura tecnico-giuridica.  Il primo termine è collegato all'indoeuropeo mus, che vale "comportarsi con misura", per cui  significa "modo di agire", "consuetudine", "costume", "morale". Nella dottrina giuridica, anche romanistica, di solito si tende a "isolare" questo termine, soprattutto nell'ultima accezione,  dal diritto, come se esso non ne facesse parte, seguendo suggestioni positivistiche kelseniane. Altre volte le fonti romane sono state interpretate  evidenziando una contraddittorietà: se da una parte i Romani non distinguevano chiaramente tra morale e diritto, dall'altra essi, in linea di fatto, evitavano nel ragionamento giuridico qualsiasi considerazione di ordine etico-morale. L'isolamento tra diritto e morale, si sarebbe tuttavia attenuato nel "diritto nuovo", cioè giustinianeo, grazie all'influsso cristiano. Non manca una corrente della romanistica che afferma vigorosamente l'appartenenza della morale al diritto, basandosi su testi romani particolarmente significativi, come quello di Ulpiano sui tria iuris praecepta .

A nostro parere, la contrapposizione tra mos e ius non esiste, in quanto le regole morali, come quelle religiose, sono ricomprese nel ius.   Res è un termine polisemico, di larghissimo uso, sia considerato di per se, sia in unione con altri sostantivi, ad esempio "natura rerum" od "ordo rerum", espressioni che indicano la totalità del mondo. Si tratta di un nome "collettivo", atto cioè ad indicare non solo il singolo ente, ma anche una sequenza o pluralità di atti legati dal raggiungimento di un fine. Il termine deriva da una radice indoeuropea, ra, con il significato di "effetto dell'azione di entrare in possesso", donde il latino res, che vale cosa, bene, patrimonio; l'italiano cosa deriva non da res, ma da "causa", nel significato di motivo, ragione, origine e ancora situazione, affare, incarico. Particolarmente importante è la locuzione res publica, tradotta in italiano, e impropriamente, con "Stato", termine moderno che non ne rende la valenza semantica: secondo il romanista Riccardo Orestano, sino all'Impero, questa locuzione è stata "comunque una sintesi di elementi personali e reali che trascende di gran lunga l'aspetto patrimoniale". E ancora: " …le più risalenti testimonianze dell'esperienza giuridica repubblicana ci presentano gli ordinamenti giuridici nel loro insieme come res, come "cose", cioè, di volta in volta romana, latina, albana, publica, identificando sovente res publica con res populi Romani".

Ed è accertato che alcune volte aggregati di uomini liberi venivano designati proprio col termine res. Pare certo, dunque, che il significato di res vada oltre quello puramente crematistico, per abbracciarne uno che ricomprende anche l'uomo libero, e non soltanto lo schiavo, visto, a seconda della prospettiva assunta, ora come "cosa" in senso patrimoniale, ora come persona. A proposito del linguaggio più arcaico (seguo sempre l'Orestano), è oltremodo interessante la problematica del c.d. "realismo nominale", che riflette una concezione fisicalistica e materialistica. In sostanza, secondo la visione più risalente dei Romani, ma anche degli Italici, il significante (nomen) e il significato (res), sarebbero un tutt'uno, poiché è il nome che, evocando la cosa, la fa esistere, la rende quello che è in realtà. Dobbiamo avvertire però che solo nel latino medioevale il termine res acquisterà il senso di "ente", di "ciò che è". "Factum" vale caso, fatto, evento. Avvertiamo che il brocardo "ex facto oritur ius" (dal fatto nasce il diritto), non è romano, ma medioevale, anche se esso si presta a rendere l' opinione dei Romani stessi in materia. A proposito del factum, bisogna distinguere il ruolo che esso aveva nel diritto privato e nel diritto pubblico.

Nel diritto privato vale senz'altro la massima "da mihi factum, dabo tibi ius" ( dammi il fatto ed io ti darò il diritto), nel senso che è la giurisprudenza, pontificale, laica e classica, che si occupa di sceverare il diritto dalla ganga degli elementi fattuali e di attribuirlo, mediante il responsum, al richiedente, con una operazione intellettuale e concettuale di grande finezza. Nel diritto pubblico, invece, le cose vanno in modo diverso, nonostante fosse attiva in questo settore la giurisprudenza pontificale (in particolare augurale), che rilasciava responsi in tutto e per tutto uguali a quelli privatistici. Ma tale giurisprudenza smise di funzionare nel caos delle guerre civili, quando il diritto pubblico divenne esclusivamente "fattuale", cioè basato sul fatto anche violento. Riportiamo la tragicomica frase di Cicerone: "disceptare cum pilis de iure publico" ( discutere con le lance di diritto pubblico). Classico elemento fattuale posto a base del diritto pubblico romano è la necessitas intesa come "norma agendi" che guida lo sviluppo della Costituzione e dei fatti istituzionali romani. E' stato detto, a ragione, che i Romani ebbero del loro diritto pubblico una visione "impressionistica", ben lontana dall'organicità con cui seppero elaborare il diritto privato.

 

 

 

 

 

 

Fas e "oggettività metafisica del reale"

 

Parlando del "sistema religioso-filosofico romano", il cui fulcro è dato dal fas,  abbiamo adoperato l'espressione oggettività metafisica del reale, che abbiamo ripreso dal politico e scrittore Guido Gonella, rifiutando la dimensione  metafisica in senso tradizionale. Ma cosa significa quella espressione ? A prima vista essa allude alla natura intimamente e oggettivamente metafisica della realtà; in poche parole non vi sarebbe alcun distacco fra la sfera metafisica e quella del reale. Questa interpretazione è basata sulla concezione del sinolo in Aristotele. Nel sinolo consiste l'ente reale, poiché  la materia (atto puro) e la forma (potenza pura), se percepite separatamente, sono mere astrazioni intellettive. Di qui il carattere immanente della metafisica aristotelica, in contrapposizione alla trascendenza platonica delle idee, forme che esistono separatamente. 

Prendendo spunto dalle osservazioni del giurista Carlo Varelli, proviamo a rispondere alla non facile domanda che poc'anzi ci siamo posti. Questo giurista contrappone l'essenza del diritto dalla sua esistenza, mettendo a confronto il diritto naturale col diritto positivo, confronto nel quale il primo rappresenterebbe l'essenza, mentre il secondo l'esistenza del diritto. E questa è una distinzione metafisica, importante in ogni ramo dello scibile, e quindi anche in quello giuridico. L'essenza non sarebbe altro che la "carica etica" che scaturisce dal sinolo aristotelico "materia-forma"; l'esistenza la validità nel campo dei rapporti giuridici dell'essenza medesima. La tendenza morale è giusta, ma può non trovare riconoscimento, come spesso avviene, nell'ordinamento giuridico positivo. Si deve dunque concludere che esistono due ordinamenti giuridici tra loro discordi ed irreconciliabili?

La risposta di Varelli è negativa, considerata l'istanza etica del diritto genericamente inteso. La lex naturalis non deve essere considerata come un insieme di precetti precostituito rispetto al diritto positivo, né tanto meno come un modello platonico che il giurista deve ricopiare. Ciò premesso, la differenza che divide i giusnaturalisti dai positivisti di ogni tendenza è che i primi considerano diritto la sintesi dell' "essenza" e dell' "esistenza", mentre i secondi considerano diritto solo quello validamente posto, soprattutto tramite la legge, riservando la loro attenzione solo all'aspetto dell'esistenza. In sostanza, i giusnaturalisti sono dualisti perché ammettono la compresenza nel mondo giuridico di due nuclei di norme, uno etico-naturale e uno positivo; i giuspositivisti sono invece monisti, perché riconoscono validità solo al diritto effettivamente esistente. Fin qui il discorso più strettamente giuridico. Ma come rapportare tutto ciò al fas?  La risposta sorge spontanea: il fas è la forma, l'essenza più alta e l'ultima istanza del ius, di cui amplifica il senso di giustizia e la valenza etica; il diritto è l'esistenza concreta e storico-pratica che contraddistingue la vita umana la quale, come tale, può bene spesso deviare dal dettame morale.

Ricordiamo che il fas è contraddistinto dalla neutralità, valore per eccellenza etico-religioso, ma che, a causa di interessi economici ed ideologici confliggenti, viene non raramente disconosciuto dal diritto. E allora possiamo dire che il fas è potenza pura (forma, essere) che esiste inscindibilmente col ius (atto puro, divenire). Peraltro il diritto naturale è facilmente avvicinabile al fas : infatti vi sono atti contrari alla legge divina che possono essere considerati come precetti di ius naturale. Infine, il fas è la forma-idea mentre il ius la materia sociale ed individuale che ad esso si ispira. 

 

 

 

Altre notizie sulle Triadi romane

Caratteristica essenziale del fas, è dunque la neutralità, che lo pone a base del ius o diritto, anche se in realtà, per l'uomo, e assai spesso difficile essere "neutrale". Vorrei richiamare ora l'attenzione sul significato della Triade regia Giove-Marte-Quirino. Sappiamo benissimo che i Romani hanno "cosmicizzato" lo Stato o, all'inverso, statalizzato il Cosmo.

Ma questo non significa che le loro divinità fossero prive di significati che andavano oltre il mero piano giuridico-politico. Inoltre, notiamo che queste divinità avevano una pluralità di significati intrecciantisi tra di loro, per cui riesce oltremodo difficile attribuirli a ciascuna deità in modo univoco. Per esempio, Giove sta all'essere come Giano sta al divenire, ma anche Marte, dio della guerra, ha a che fare col divenire, poiché la guerra è un evento dinamico, ecc. La Triade, secondo Dario Sabbatucci, era invocata nei rituali dei sacerdoti feziali nella dichiarazione di guerra ad un popolo nemico, ma lo era anche il fas. (Audi Iuppiter, audiat fas ecc,).

Sempre secondo Dario Sabbatucci, " l'imperium, con il suo esercizio, collega Giove, Marte e Quirino…Giove è il detentore dell'imperium; Marte e Quirino sono i soggetti divini della regalità che esercita l'imperium." Secondo noi, la Triade in questione esprime un altro significato: Giove rappresenta l'Essere, che, come sappiamo è neutro; Marte il divenire, cioè la guerra e Quirino, Romolo divinizzato, la pace, cioè la stasi, perché i Quirites altro non erano che semplici cittadini, dei borghesi privi della loro funzione militare.

E quanto al carattere neutro di Giove, già individuato nella Triade Giove-Marte-Venere, ne abbiamo una possibile conferma nell'interpretazione che Macrobio (erudito pagano del V sec. D.C., dà della Triade Giove-Giunone-Minerva: dove Giove, che occupa il posto centrale, sarebbe l' "etere mediano"; Giunone l'aria immediatamente sovrastante la Terra e Minerva il culmine di Giove. Così è forse lecito estrapolare una identità univoca di Giove, padre degli dei: esso sarebbe l'elemento neutro, cuore dell'Essere, patrono dell'ordine e dell'equilibrio cosmico, garante e tutore dei patti e degli accordi interni ed internazionali di Roma. In una parola. il dio della Giustizia, che, bendata, non può guardare né verso una parte né verso l'altra.

 

 

Le implicazioni scientifiche del fas

Come sappiamo, il pensiero romano è di tipo popolare, nel senso che è stato elaborato da una collettività di individui nel corso dei millenni; essendo popolare, è anche anonimo, perché non è riconducibile ad un autore noto, come nel caso dei sistemi filosofici di Platone, Aristotele, Cartesio, Leibnitz e via elencando. Esso è incentrato sul fas, La legge divina, è ha dunque una valenza religiosa. Tuttavia, come abbiamo cercato di dimostrare in una precedente notizia, può essere spiegato e analizzato alla luce del ius,  ricorrendo a categorie filosofiche, e facendo appello al concetto aristotelico di "sinolo", indistinzione di materia e di forma. Quindi abbiamo le interpretazioni religiosa e filosofica. 

Può avere il fas un significato  anche scientifico ?  Secondo noi, si. Per quanto mi riguarda, posso dire di aver capito i rapporti intercorrenti tra Dei, fas , ius, e natura interpretando i tre colori della bandiera italiana,  sempre, ovviamente, se questa interpretazione sia corretta e storicamente fondata; in ogni caso essa ha origini esoteriche. Per quanto riguarda l'aspetto scientifico sembra che il fas  alluda ad una combinazione di forze o principi cosmici che si risolvono in uno stato indeterminato ed indistinto.

Come è stato detto "la vita non è logica" e, a parer mio, vani sono gli sforzi della fisica teorica volti a trovare l'"ultima particella". L'Universo alla fine è neutro, ed è  comprensibile con un atto puramente intellettivo, ma non dimostrabile scientificamente e razionalmente mediante una griglia di calcoli matematici. Gli è che nello scontro di due principi opposti e complementari, la materia o energia si annichilisce, sfuggendo ad ogni comprensione basata sulla mera ragione scientifica. Rimane solo la constatazione di questa realtà, e questa constatazione è pure essa, a mio avviso, un fatto intrinsecamente scientifico.

Quindi nel fas , e nei suoi rapporti con i termini-concetti ad esso afferenti, si celerebbe tutta la cultura umana nei suoi molteplici aspetti. Qui non si vuol affermare assolutamente la superiorità della tradizione romana nei confronti delle tradizioni degli altri popoli; anzi, sono convinto che in tutte le culture umane sono impliciti i concetti che abbiamo sin qui esposto, ed altri ancora. Merito della tradizione romana è forse la sinteticità con cui viene elaborata la realtà umana e divina, nell'ambito di un pensiero eminentemente civico. La tradizione romana rispetta le diversità e la pluralità, ed  è improntata ad una proverbiale tolleranza religiosa: l'Imperatore Tiberio diceva che le offese agli dei sono di esclusivo loro interesse e preoccupazione.

Quindi niente "Dio unico" ed "unica dottrina" da imporre a chicchessia, ma una visione civica che, potenzialmente, potrebbe svolgere un ruolo positivo nel dare sostegno allo Stato democratico nel problematico momento storico che tutti noi stiamo vivendo.

 

 

 

 

 

 

Qualche informazione sulla Destra

Gli uomini di Destra sono i conservatori radicali. Ma non conservano agi, privilegi o ricchezze, sebbene la memoria del passato. Spero che ciò sia risultato evidente dal tentativo di recupero, in funzione attualizzante, del pensiero romano e del valore del Tricolore italiano, cose che io considero strettamente connesse. L'Italia è un Paese che è ed è stato spesso disprezzato, anche da molti italiani. Ma a torto. Esso è una miniera inesauribile di arte e di cultura. E' vero che politicamente non è mai riuscito ad esprimere una classe dirigente di un qualche rilievo internazionale, ed oggi meno che mai.

La "Destra" al Governo è criticabile da molti punti di vista, in primo luogo per il supina acquiescenza nei confronti degli Stati Uniti e per la politica economica che, peraltro, è ormai imposta dall'Unione Europea, con la sua astratta ed anti-popolare fissazione del pareggio di bilancio. Ritornando alla Destra (quella senza virgolette), abbiamo detto che è conservatrice. La continua ricerca dei valori nazionali e l'ossessione identitaria, sia a livello individuale sia a livello collettivo, la rende effettivamente tale. Ma se è conservatrice, non per questo è reazionaria.

E' vero che non ama le novità, ma, avendo buon senso, si adatta anche a queste, a patto che non minino l'integrità culturale, sociale e politica del Paese. L'Italia è un Paese estremamente complesso. Naturalmente tutti i Paesi hanno la loro complessità storico-culturale. Pensiamo solamente alla Gran Bretagna, denominazione, questa, puramente geografica, mentre Regno Unito è quella politica. Esso è il risultato dell'incontro e della stratificazione di più culture, da quella romana, a quelle normanna e sassone. Vi si parlano anche lingue celtiche come nel Galles e in Irlanda.

Nel complesso, il Regno Unito è un incrocio di popoli, tra cui spicca quello Inglese, particolarmente compatto. Ma l'Italia, per la sua posizione centrale nel mondo, è il luogo dove si incontrano e si neutralizzano le energie provenienti dai quattro punti cardinali. Questa eccentricità geografica si è tradotta nel passato in pesanti intromissioni di potenze straniere; dalla Francia, alla Spagna, all'Impero Asburgico, mentre da sud e da est è rilevante la pressione dei popoli musulmani. Anche più della Gran Bretagna, l'Italia è un mosaico di popoli: Celti, Germani, italici, Normanni, Etruschi, Greci, Albanesi, Fenici ed Arabi, hanno nel tempo plasmato la compagine culturale di questo Paese. In Sardegna si parla anche il catalano, mentre il ladino è localizzato nell'area dolomitica. 

Diverso è il discorso da fare sugli Altoatesini di lingua tedesca: essi si stabilirono in Alto-Adige nell'alto Medioevo, provenienti dalla Baviera. In origine, in Alto-Adige, si parlava una lingua reto-romanza, cioè neolatina: aveva dunque ragione il geografo e politico Cesare Battisti quando parlava di italianità di questa terra. Oggi si è creato un clima più favorevole ad una convivenza pacifica e rispettosa delle diversità, grazie alla politica democratica del Governo italiano.

La Destra è contro l'immigrazione, specie se clandestina, non per volgare razzismo o egoismo, ma per il preminente interesse dell'ordine pubblico. Ancora, la posizione centrale che ha l'Italia nel Mediterraneo fa gola agli Stati Uniti, che l'hanno disseminata di basi militari: si tratta di una vera e propria occupazione, che ha il suo fondamento giuridico nell'armistizio di Cassibile del 1943, pieno di clausole vessatorie nei confronti dell'allora Regno d'Italia. Dopo un settantennio dalla fine del II conflitto mondiale, sarebbe ora di rinegoziare l'adesione dell'Italia alla NATO a condizioni più blande. Ma vorrei concludere con una riaffermazione della vocazione neutrale dell'Italia: né con l'Occidente, né con l'Oriente. 

 

 

 

 

 

Popolo e massa

Popolo e massa, un rapporto problematico. Cos'è il popolo? Un insieme di individui che si riconoscono in una identità e in una tradizione comuni, ed hanno fiducia nel futuro del loro Paese. La definizione di popolo che dobbiamo a Cicerone, certo intelligente, è a mio avviso incompleta. Diceva Cicerone che il popolo non è una semplice riunione di individui, ma un gruppo tenuto insieme dal vincolo dell'utilità e del diritto.

Quello dell'utilità è un motivo ricorrente nella letteratura giuridica romana, a tal punto che si può identificare l'utile con il diritto. D'altronde, lo stesso Cicerone faceva coincidere l'utilità pubblica con la giustizia. 

Cos'è la massa? una accolta indifferenziata di individui irrazionale e sempre avida di novità. In Italia c'è buon popolo, ma anche tanta massa.  L'uomo della massa, non avendo valori né ideali, sarà sempre portato a cambiare opinione a seconda del proprio tornaconto personale. Purtroppo la qualità sta nelle piccole dosi, mentre nelle grandi quantità si smarrisce il valore ed ogni certo punto di riferimento etico e nazionale.

Ma perché c'è così tanta massa in Italia ? A prescindere dall'immigrazione moderna, avutasi dal 1989, e che rappresenta un problema serio, vorrei fare un discorso storico e dare una risposta conseguente. A parte il proverbiale regionalismo,  che risale all' Italia preromana e che ripreso il sopravvento nell'Alto Medioevo, con il venir meno dell'autorità centrale imperiale,  bisogna rifarsi alla storia romana. I Romani, nella loro politica di conquista, facevano largo uso delle deportazioni, cioè trasferivano con la forza intere popolazioni in Italia, per alimentare il mercato degli schiavi. Si aggiunga che lo stesso affermarsi dello Stato romano come potenza mediterranea, aveva favorito nel tempo una massiccia immigrazione spontanea che, ad un certo punto, si rinunciò a contrastare.

Il risultato fu che prese sempre più piede, in Italia come del resto in tutto l'Impero, una ideologia di massa, e questa fu il Cristianesimo, largamente diffuso fra gli strati umili della popolazione, come gli schiavi, che certamente non potevano amare il sistema romano, basato sul censo, lo sfruttamento e la preminenza dei più facoltosi. Ma è anche vero che gli intellettuali di questa ideologia appartenevano essi stessi alle classi più alte: facciamo i nomi di Sant'Agostino, di Lattanzio, di Tertulliano.

E questo assetto sociale si è tramandato nel tempo, divenendo attuale. Roma antica è durata circa 1.300 anni; il Cristianesimo dura da più di 2.000 anni. Sicuramente tra le masse ci sono individui di valore, ma esse, nel loro complesso, non ragionano, sono irriflessive e sono preda di astuti demagoghi. La massa brutale finisce col fagocitare tutto, anche i più elementari sentimenti umani: essa, infatti, a differenza del popolo, non ha né identità né coscienza. La stessa storia romana lo dimostra: Polibio, storico greco del II sec. D.C., ammiratore della Costituzione mista di Roma, basata sulla fusione dei tre elementi oligarchico, popolare e regio, predisse, come infatti avvenne, che l'invadere della massa avrebbe mandato in frantumi quell'assetto politico, ignoto alla Grecia e costruito, come diceva Catone il Censore, sulla vetusta esperienza di intere generazioni.

Inutile fu il tentativo dei tribuni Gracchi, che tentarono di opporsi al latifondismo senatorio e di ricostituire il ceto medio dei contadini che aveva fatto la grandezza di Roma: il loro tentativo finì in una brutale repressione.

 

 

 

 

 

La Destra e il valore

Questo mondo è spesso ingiusto ed ingrato. I beni materiali e la vita stessa sono effimeri e passeggeri. Le tristi generazioni si susseguono ognuna col proprio bagaglio di dolore e sofferenza. Soffermandosi a riflettere sulle vicende umane, non si può non constatare la loro inanità e insensatezza. Il poeta greco Mimnermo già poetava sull' "ottimo non essere mai nati"; gli fa eco il nostro Leopardi: "funesto è a chi nasce il dì natale".  Tutte le letterature sono intrise di un senso di sgomento di fronte alla finitezza e all'impotenza dell'uomo, la cui esistenza sembra essere preda del caso o del destino. La Destra ha sempre sostenuto, fin dall'alba dell' umanità, che ciò che più conta non è la ricerca del possesso, del piacere o del potere, ma quella del valore. Ma cos'è il valore ? E' il significato riposto nelle cose, che l'uomo deve comprendere od intuire, come quando ci si interroga sul valore personale ed esistenziale, o sullo stesso significato del mondo, che è sempre apparso come un mistero. Ricordo la bella replica fatta dal senatore romano Quinto Aurelio Simmaco al Vescovo Sant'Ambrogio (siamo nel V sec. D.C) a proposito del mistero dell'esistenza: ebbene, egli controbatté al dogmatismo tipicamente cattolico del Vescovo, dicendo: "ci sono tante strade che portano ad un segreto così grande" (tam magnum secretum), dando una lezione di libertà religiosa e di pensiero, tipica del politeismo non solo romano. I Romani erano un popolo che aveva un grande valore, nonostante gli si possano rimproverare venalità e anche scelleratezze ed efferatezze varie. Ma nella storia la sua influenza non è venuta mai meno, e non si è limitata solamente all'idea dell' Impero, che secondo Hannah Arendt avrebbe nuociuto così gravemente alle età storiche successive, ma si è estesa anche ad un patrimonio di conoscenza che abbiamo cercato di decifrare e razionalizzare. D'altronde l'Augusto Giustiniano in una Costituzione imperiale premessa al Digesto ( Tanta, 15), ci avverte che in esso c'è un aliquid occulte positum ( un qualcosa posto nell'occulto), lasciando intendere così che esiste una verità che va oltre le citazioni, a volte veramente aride, dei giuristi romani. Non pretendiamo certo di aver svelato questa verità riposta nell'occulto, ma abbiamo tentato (con i modesti mezzi a nostra disposizione) solamente di sublimare e portare alla luce il valore arcano che sicuramente esiste nelle testimonianze romane, sia nelle fonti giuridiche sia in quelle c.d. atecniche. Peraltro, la Destra, pur disprezzando i beni materiali, non fa alcuna predica sul loro abbandono, consapevole che essi servono alle ordinarie esigenze della vita, che, d'altro canto, è piena di convenzioni spesso ipocrite e superficiali. I Cinici dicevano appunto questo, cercando l'isolamento dalla civiltà per preservare la "salute mentale". E mentre la Destra non può non sottoscrivere l'affermazione relativa al "convenzionalismo" implicito nell'esistenza umana, il suo impegno etico-politico nazionale la spinge a prendere parte attiva al dibattito sociale e culturale. Il valore può essere tratto solo dalla realtà delle cose; non è un qualcosa che l'uomo può costruire da sé, fondando sistemi filosofici il più delle volte arbitrari per non dire falsi, nonostante talvolta non privi di acute e pregevoli osservazioni: bisogna esaminare i reciproci rapporti tra Dio, uomo e natura per giungere ad una sintesi il più possibile logicamente convincente. Dall'utopia non può essere esplicitato il valore. E mentre i beni materiali vanno e vengono, il valore rimane in eterno, oltre la fugace esistenza umana.

Le Triadi romane

La  Triade ufficiale dello Stato romano non è quella Giove-Venere-Marte, ma quella Giove-Giunone-Minerva. Quale è l'interpretazione che ne davano gli antichi ? Secondo l'erudito Marco Terenzio Varrone, vissuto nel I sec. A.C., Giove, divinità uranica, rappresenta il Cielo; Giunone, divinità ctonia, la Terra ed infine Minerva è la Mente, che dà forma e vita a ciò che proviene dal Cielo e dalla Terra. Minerva ha una funzione "mentale", ed infatti era la dea protettrice di coloro che esercitavano l'artigianato e, più in generale, le professioni.

Anche qui notiamo una dialettica tra principi opposti, tra Giove, tutore dell'ordine, ed elemento maschile, e Giunone, elemento femminile, protettrice delle matrone. E anche qui c'è il principio neutro che possiamo identificare in Minerva, la greca Atena, ammesso che questa sia la giusta interpretazione. Minerva (da mens) rappresenta la sapienza che pone in atto la creazione, se vogliamo darle un significato "esoterico".

Come il Demiurgo platonico, essa plasma le forme rivolgendosi, per modellarle, all' Iperuranio, che è appunto il luogo astratto popolato dalle idee disincarnate. In questo contesto, dunque, lo stato neutro che è mediano tra gli opposti, è qualcosa: è o ha una mente. Nel Tricolore è Giove, il bianco, che rappresenta l'elemento neutro, in cui si dissolve la contrapposizione Marte/Venere. Tale elemento, come abbiamo osservato, è indefinibile e indeterminabile: può essere tutto e il contrario di tutto; ma può essere anche e semplicemente il grado zero dell'energia, dove tace l'opposizione tra principio attivo e principio passivo.

Nella Triade patrizia, invece, notiamo che la funzione di Minerva è ben determinata: essa raccoglie il patrimonio informativo derivatole dalle altre due Divinità, e lo rielabora in esseri e forme naturali od umane. V'è quindi una notevole differenza tra il Giove del Tricolore e la Minerva della Triade patrizia: nel primo caso abbiamo un'entità dalla natura sfuggente e assai difficilmente comprensibile; nel secondo caso troviamo una Mente che sembra avere una funzione specifica, quella creatrice.

 

 

L'esperienza romana

I Romani si consideravano religiosissimi mortales. Questa definizione può essere vera per il passato remoto di Roma, quando venivano officiati con scrupolo e paura reverenziale i culti ed i riti sacri. Non è vera invece per l' avanzata età storica, in cui è evidente il distacco del popolo romano dalle antiche credenze, e lo sfacelo della religione romana nazionale.  Si dice che la religio romana degli antichi padri fosse una "ortoprassia", (alla lettera: agire bene), consistente in un insieme di gesti e comportamenti finalizzati a preservare l'armonia del cosmo, e, con essa, il favore degli dei verso la comunità (pax deorum):fare è credere. La religione romana tradizionale è del tutto priva di slanci mistici, mentre qualche studioso ha sottolineato l'atteggiamento razionale del magistrato repubblicano nella presa degli auspici, cioè dei segni inviati dagli dei, fondamento di ogni futura intrapresa.

Questa "razionalità" distingue con ogni evidenza il credo religioso romano da altre forme religiose, come, in primis, il Cristianesimo, con i suoi mistici ed asceti di ogni epoca. Anche nell'induismo vigoreggia la tendenza verso la visionarietà, con i viaggi astrali, gli aiutatori astrali e via dicendo. Qui non si vuole passare in rassegna tutte le tradizioni religiose giudicandole sul metro della ragione intesa come parametro di veridicità: siamo ben lontani da questo scopo. Vogliamo solo sottolineare che la religione romana, almeno fino all'età repubblicana, riposava sopra questo sostrato mentale.

Nemmeno tale religione era avveniristica, come il cristianesimo o l'ebraismo, perché mentre per la prima il tempo è circolare, ed è fondato sui ritmi delle stagioni e del ciclo lunisolare, per le seconde il tempo è lineare, cioè si muove da un punto iniziale per approdare ad una ultima rivelazione: la sconfitta del sistema di cose da parte dei fedeli. A proposito si è parlato di Provvidenza divina, che, imperscrutabilmente guiderebbe l'agire storico umano verso una meta finale; si è fatta perciò molta filosofia della storia, basandosi, ad es., sui testi del monaco calabrese Gioacchino da Fiore. D'altronde anche l'Augusto Giustiniano parlava nel Digesto di una divina quadam providentia che guiderebbe la storia: ma siamo ormai nell'ambito del pensiero cristiano.

Completamente diversa è la impostazione romana, che osservava il volo degli uccelli o scrutava nelle viscere degli animali sacrificati per scorgere anomalie di struttura tali da costituire un presagio avverso. Naturalmente, si può benissimo ribattere che tale atteggiamento poteva degenerare in superstizione, ma è pur sempre vero che esso manteneva un approccio per così dire oggettivo, naturalistico, alle valutazioni da trarre in sede religiosa. Ed è così che sono state criticate interpretazioni magistiche della religione romana, che sembra scevra dalla propensione alla magia. A nostro modesto avviso, ciò che distingue la via romana al divino da moltissime altre, è l'attitudine mentale razionale. Si può anzi dire che, questa via, alla fine, è puramente concettuale, rifiutando ogni incrostazione magica o trascendentale.

Esistono dei concetti nella cultura romana, che vanno studiati attentamente sia singolarmente, sia nei loro reciproci rapporti, in modo da poter desumere la visione che i Romani avevano del cosmo e dei  rapporti che gli uomini hanno col medesimo. 

 

 

 

 

 

Popolarità della cultura italiana

In una precedente notizia abbiamo messo a confronto la cultura italiana e la cultura nord-europea,  evidenziando alcune caratteristiche della prima. Qui ritorniamo sui nostri passi, approfondendo il discorso. A mio avviso, la cultura italiana è contrassegnata da una forte popolarità. Questo tratto lo ritroviamo in tutte le branche dell'attività letteraria, tanto da poter dire che gli italiani hanno fatto la rivoluzione con la cultura. Nel duecento troviamo la titanica personalità di Dante, le cui terzine sono impregnate di espressioni ed umori popolari.

Grande divulgatore in volgare, gli fu preferito il Petrarca come modello di poesia, ma ancora nel '500 troviamo nel letterato e grammatico Gian Giorgio Trissino un suo grande estimatore. Nel confronto di cui sopra, abbiamo detto che in Italia è sempre prevalso, come genere narrativo, la novella piuttosto che il romanzo, già noto in Francia con la Chanson de Roland e destinato ad un grande avvenire nei paesi nord-europei, anche grazie la mediazione dell'incomparabile Don Chisciotte della Mancia  di Cervantes, che è forse il primo romanzo moderno. Autentici romanzi italiani furono però l'Autobiografia di Benvenuto Cellini e la Vita di Vittorio Alfieri.

Gli è che gli italiani furono narratori di cose popolari, non mancando spesso né di finezza né di intelligenza. Ricordiamo il Trecentonovelle di Franco Sacchetti, il Novellino di Masuccio Salernitano, e la novella di Luigi da Porto, il cui tema dell'amore fra i due giovani veronesi fu ripreso da Shakespeare. Importante novelliere è stato Matteo Bandello. Ma qui si inserisce il filone della letteratura in lingua regionale, capace di produrre autentici capolavori, anche se per sua natura inadatta a veicolare concetti più astratti come la lingua italiana.

Pensiamo all'opera del milanese Bonvesin de la Riva, autore vissuto nel '300, e da molti ritenuto il padre della lingua lombarda, ma anche al napoletano Giambattista Basile, vissuto tra '500 e '600, autore di una raccolta di novelle in lingua napoletana intitolata Lo cunto de li cunti, raccolta di fiabe per il divertimento dei più piccoli. Il bolognese Giulio Cesare Croce, fu un commediografo e cantastorie e seppe far risaltare nelle sue opere l'arguzia del popolano nei confronti dei raffinati cortigiani. Le sue opere sono scritte in un misto di italiano, dialetti ed anche lingue straniere. Come non ricordare personaggi illustri come il poeta milanese Carlo Porta o, a Roma, Gioacchino Belli o a Napoli, e siamo ormai nel '900, Salvatore di Giacomo?

Tutti poeti che seppero dar voce al popolo delle rispettive città. Ritornando indietro nel tempo, incontriamo le personalità di Teofilo Folengo, che scriveva in latino maccheronico, il toscano Pietro Aretino, noto per i suoi sonetti lussuriosi e Francesco Berni, anche lui dedito a rappresentare nei suoi componimenti gli aspetti osceni dell'esistenza. Spesso, gli autori italiani scrivono contemporaneamente in italiano e nella lingua regionale di appartenenza. Per quanto riguarda, in generale, il romanzo italiano esso vanta, come sappiamo, nomi illustri, ad iniziare da Ugo Foscolo fino, mettiamo, ad Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini: ma solo relativamente pochi romanzieri sono riusciti a travalicare quel senso di radicamento popolare e provinciale, per avere una risonanza veramente europea ed internazionale.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

Precisazioni sul fas.

Ci siamo soffermati sul termine "fas" e lo abbiamo collegato, senza alcuna pretesa di verità, al Tricolore italiano. In questo post, vorrei approfondire il significato di questo termine e svolgere ulteriori indagini in merito ad esso. Checché se ne dica, o se ne sia detto, il "fas" non può essere considerato come un concetto giuridico, perché, come dice lo storico delle religioni Georges Dumèzil, esso è propriamente "il fondamento mistico di lassù", senza il quale le azioni umane non avrebbero alcun senso. Gli stessi eruditi romani lo ricollegavano alla greca Thémis, dea dell' equilibrio cosmico: il "fas" dunque è una norma cosmica, posta al di sopra del "ius", o diritto, creato dall'uomo e per l'uomo.

Il "fas", è ciò che è lecito per volontà divina; il "ius" è ciò che è giusto dal punto di vista umano. Viene in considerazione la coppia opposizionale "fas/nefas": dove il primo termine rappresenta il lecito, mentre il secondo equivale pressappoco a quello che noi chiamiamo "peccato" o anche scelleratezza ("crimen nefandum"). A mio avviso, il "fas" amplifica il senso di giustizia implicito nella nozione di diritto, e, per converso, il "nefas" quello di riprovazione morale del termine "iniuria" (il contrario di "ius"), almeno nei primissimi secoli dell'esperienza giuridica romana. Il concetto di "fas", pur posto a base del diritto, è dunque una realtà "altra" nei confronti di questo: si sono fatti dei tentativi di assimilarlo al "ius divinum" o "sacrum", ma senza alcuna argomentazione convincente. Si è parlato di "negozi del fas" (ad es. confarreatio, votum, sepultura, evocatio), ma questi atti appartengono più verosimilmente alla sfera del diritto divino o sacro, che regolava i rapporti tra gli Dei e gli uomini.

Il fas in quanto tale non è un sistema di norme parallelo a quello del "ius" e a questo complementare. Indica piuttosto una Legge cosmica, in sé perfetta e non suscettibile di cambiamento, anche se garante dei rapporti posti in essere dal "ius".( "ius fasque"). E' la Giustizia divina, che si manifesta all'uomo attraverso segni e prodigi ("auspicia"). E siccome la giustizia è per definizione neutra, non parteggia né per l'uno né per l'altro dei contendenti, ecco che il sostantivo "fas" è un neutro indeclinabile, mentre il vocabolo "ius" è sempre neutro, ma declinabile perché l'uomo crea tanti modi di fare giustizia.

Ma la Legge di Dio è una entità a sé stante o è espressa dagli dei medesimi? Risponderei che essa è data dall'associazione del significato di più divinità, cosa che accade nelle Triadi religiose dei primi secoli di Roma. Ci consta che il dio Giove abbia costantemente il significato di "etere", "aria", che per tradizione, è associato all'elemento neutro. E così esso rappresenterebbe la giustizia divina nei costrutti teologici dove gli dei sono tre in uno.

Le quattro letterature "italiane".

Assumiamo qui il latino come sermone "patrio", anche se, in verità, a causa della diffusione sovrannazionale della civiltà romana, esso fu adoperato dai dotti di tutta Europa per comunicare fra loro e diffondere la cultura, almeno fino al XVIII secolo e poco oltre.

In questo post, parleremo delle manifestazioni letterarie irradiatesi dall'Italia, vuoi in volgare fiorentino, vuoi in latino. Esse sono quattro, così come preannunciato dal titolo: una letteratura latina "pagana" ed una cristiana; ed inoltre una letteratura italiana di impronta cattolica ed una di impronta a-confessionale, o comunque non legata al cattolicesimo. Queste forme letterarie sono così intrecciate, che spesso è arduo trovare un netto discrimine tra di loro. 

In tutta questa enorme produzione letteraria, infatti, sono presenti  fitti rimandi di ciascuna "forma" verso un'altra o verso tutte le altre, ed inoltre è notevole l'influenza greca. Questo perché l'umanesimo latino è riuscito ad amalgamare la cultura romana con quella greca, traendo da essa linfa ed ispirazione. 

Nel rapporto tra Roma e l'Italia esiste un certo dualismo. Se un dualismo c'è esso non può riferirsi che al passaggio dall'Evo antico all'Evo moderno. Infatti, per l'evo antico, non si parla di italiani, ma semmai di italici, che, inquadrati nei ranghi romani, insieme alle altre popolazioni stabilite in Italia, come i Galli, si gettarono alla conquista del mondo allora conosciuto.

Anche dal punto di vista linguistico può essere ravvisato un "dualismo": nell'età antica si parlava latino, mentre oggi si parla l'italiano: peraltro si può fondatamente dimostrare che il latino non è una lingua morta, ma si è evoluta nel ceppo delle lingue romanze fra le quali l'italiano vanta la maggiore conservatività nei  confronti della lingua-madre. 

Così, l'Italia è il Paese delle quattro letterature: una, quella latina "pagana", incentrata sulla missione universale di Roma del "parcere subiectis et debellare superbos"; la seconda è quella latino-cristiana, ispirata dalla fede nel Cristo risorto; inoltre abbiamo, in posizione speculare, una letteratura italiana di ispirazione cattolica ed una di ispirazione laica e secolare. Bisogna avvertire che tra queste letterature i confini sono labili, in quanto bene spesso esse si fondono e si completano a vicenda.

Ad es., il Cardinale Pietro Bembo, è stato colui che ha stabilito il canone prosastico (boccacciano) e poetico (petrarchesco) della letteratura italiana, scrivendo anche opere in latino di ispirazione classica. D'altra parte, abbiamo un Giordano Bruno, fecondo scrittore di opere filosofiche ed autore di una interessante commedia (Il "Candelaio") di chiara impronta umanistica, finito arso vivo per eresia. Un esempio di commistione tra paganesimo e cristianesimo è offerto da Jacopo Sannazaro, poeta napoletano del '400, autore sia del fortunato prosimetro "Arcadia", sia del componimento latino, di splendida fattura, De partu virginis.

Poeta di ispirazione cristiana è di certo Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata; assai meno lo fu Ludovico Ariosto del quale tutti ricordano il capolavoro l'Orlando furioso, varie commedie di ispirazione plautina e terenziana nonché le Satire Ispirate a Quinto Orazio Flacco Francesco d'Assisi e Jacopone da Todi inaugurano il filone della poesia religiosa, mentre quella profana è rappresentata da Cecco Angiolieri, Francesco Berni e Pietro Aretino. Su posizioni più aristocratiche, fu l'umanista, poeta e filologo classico Angelo Poliziano, il cui orizzonte culturale sembra circoscritto agli interessi umanistici, non avendone di ecclesiali. 

Tra settecento e ottocento, giganteggia la figura di Giacomo Leopardi, il cui materialismo e sensismo è a tutti noto. Tra gli inizi e la fine dell'Ottocento, si colloca la vita di Giacomo Zanella, presbitero, poeta, traduttore e fervente patriota.

Abbiamo due tradizioni politico-storiografiche: una rappresentata da Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Paolo Sarpi, di simpatie protestanti, che vuole essere rigorosa ed oggettiva, ed una di ispirazione cattolica, come testimoniano i nomi di Giovanni Botero, Paolo Giovio e Daniello Bartoli.

Ma uno storico ed erudito come Ludovico Antonio Muratori è inclassificabile. Presbitero, fu esponente del Cattolicesimo moderato. Accanto agli interessi ecclesiastici, coltivò una viva passione per le lettere antiche, anche greche, dedicandosi altresì alla letteratura italiana, con i Primi disegni della repubblica letteraria d'Italia, e Della perfetta poesia italiana, scritti  da cui emerge un vivido sentimento nazionale. Ma i capolavori del Muratori sono i tre tomi delle sue ricerche storiche: i Rerum italicarum scriptores, le Antiquitates italicae Medii Aevi e il Novus Thesaurus veterum inscriptionum. La sua opera più famosa sono gli Annali d'Italia, che abbracciano un periodo che va dagli inizi dell'era volgare al 1749. Ebbe anche interessi giuridici: scrisse infatti un Dei difetti della giurisprudenza.

Anche gli antichi scrittori cristiani, pur combattendo risolutamente la religione tradizionale romana, non poterono fare a meno di confrontarsi con essa, contribuendo efficacemente a tramandarla ai posteri. Un esempio è dato dal Vescovo d'Ippona, Sant'Agostino, che, nella sua smania di polemizzare contro la religione pagana, ci fornisce preziose informazioni sul culto romano tradizionale, che altrimenti sarebbero cadute nell'oblio. Più tardo è il  filosofo Severino Boezio, appartenente alla famiglia nobiliare Anicia, passata sicuramente al Cristianesimo fin dall'età di Costantino. Egli apparteneva ad una età di passaggio ed è stato significativamente definito ora come "l'ultimo dei Romani", ora come il "primo degli scolastici"; il suo sogno era di conciliare la filosofia platonica con quella aristotelica. A lui si attribuiscono alcuni opuscoli di teologia cristiana. 

Per concludere, osserviamo che la letteratura italiana, come pure l'arte, è formata da due filoni che tendono a fondersi in un tutt'uno: il classico e il cristiano.

 

 

 

 

 

 

 

Natura "sacra" e natura "profana"

Parlando di natura, abbiamo visto che questo termine, nella cultura letteraria di Roma antica, ha almeno due significati: l'uno giuridico e l'altro fisico. Quello giuridico può essere riferibile al ius privatum o al ius publicum; quello fisico riguarda tutti i casi in cui la natura viene in risalto come universo o creato (natura da nasci, nascere), senza ulteriori specificazioni.

Nel corso del III-IV secolo A.C., in Roma, prese vita il grandioso processo della laicizzazione del diritto, attraverso il quale la sua conoscenza, prima riposta in penetralibus pontificum, venne divulgata al pubblico e divenne monopolio di una classe di notabili "laici", gli iuris auctores, svincolati dagli ambienti sacerdotali, e veri e propri "professionisti" del diritto. 

Ma tale laicizzazione riguardò solo il diritto privato, mentre il diritto pubblico, almeno fino alla fine della Repubblica, rimase appannaggio della classe sacerdotale, rappresentata dal Pontificato Massimo. Si ricordano veri e propri responsi, emanati dai sacerdotes publici populi romani , in tutto e per tutto uguali a quelli rilasciati dagli iuris prudentes in ambito privatistico. 

Un problema preliminare che si pone è questo: perché è diffusa l'idea che i Romani considerarono solo il ius privatum come vero e proprio diritto, trascurando di coltivare con lo stesso zelo il ius publicum ? Veramente nella media età repubblicana troviamo scrittori e vari trattati sui poteri pubblici, come il De potestatibus e il De consulum potestate ed ancora altri di argomento pubblicistico. La mia idea è che gli interessi pubblici erano in gran parte basati sulla religione; come dice Ulpiano: ius publicum in magistratibus, in sacerdotibus, in sacris consistit. (E i magistrati si occupavano anche di questioni religiose). Il popolo romano condivideva si interessi politici, elettorali, finanziari criminali ecc., ma il vero collante del diritto pubblico stava nella religione tradizionale. Una volta entrata in crisi questa, l'intero apparato pubblicistico finì per crollare: gli interessi politici erano tenuti a bada dal timore religioso.

Secondo il ius publicum, la natura era dominata da entità divine, come mostra il Calendario e la suddivisione tra dies fasti e nefasti, che tanta importanza ebbe nella vita costituzionale della civitas. Questo per dire che la natura nel diritto pubblico ebbe una valenza "sacra". Intendiamoci: anche il diritto privato aveva i suoi sacra, ma la dimensione religiosa apparteneva all'intero popolo romano, per cui venivano officiati i sacra publica, i sacra pro populo e i sacra popularia. La religione, per i Romani, riguardava la comunità tutta, e gli stessi sacerdoti erano quasi funzionari dello Stato.

Mentre il diritto pubblico spariva, sostituito dal diritto imperiale e dai culti orientali, nell'età classica si assiste al fenomeno della laicizzazione della natura, che non poté che avvenire se non in campo privatistico: per i giuristi classici la natura è sinonimo di regolarità, normalità, modo di essere. E tutte le espressioni giuridiche che abbiamo già elencato ( natura contractus, lex naturalis, ratio naturalis per ricordarne qualcuna) non hanno nulla di religioso.

Invito alla filosofia italiana.

Questo post vuole essere un invito allo studio della filosofia italiana.

In essa sono visibili tre filoni: quello della filosofia naturale, quello storico-giuridico e quello teologico. Lasciamo da parte quello che potrebbe essere un ulteriore filone, l' umanistico. Gli umanisti, nonostante fossero essenzialmente dei filologi, si definivano filosofi, e non raramente essi lo furono:  a proposito si ricordano i trattati morali di Lorenzo Valla, di simpatie epicuree, o quelli di Coluccio Salutati, importante uomo di Stato fiorentino. Tuttavia,  l ' umanesimo fu un movimento culturale volto alla riscoperta storica e non più semplicemente allegorica dei classici greci e latini. e si occupò della "questione della lingua", ovvero della corruzione della lingua latina, come fa fede la disputa tra Leonardo Bruni e Flavio Biondo. Secondo me, l'umanesimo fu più un movimento linguistico-filologico che filosofico in senso proprio.

  Per filosofia naturale si intende la riflessione filosofica applicata allo studio della natura. Storicamente, essa consisteva nello studio della fisica prima del sorgere della scienza moderna, ed è tramontata, per la concorrenza delle scienze sperimentali, fin dagli inizi del XVIII secolo. Filosofia della natura era dunque una espressione che indicava lo studio della natura sia da un punto di vista scientifico sia da un punto di vista metafisico. In sostanza, essa comprende tutte le correnti esoteriche e filosofiche dall'antichità fino all'avvento delle scienze esatte. Perciò lasceremo in disparte personalità quali Redi, Spallanzani, Morgagni ecc. e a maggior ragione Galileo Galilei, in quanto esulanti dall'ambito di questa breve trattazione.

Avvertiamo che questo scritto vuole essere originale non certo nell'esposizione della biografia e della dottrina degli autori richiamati, ma nella chiave di lettura fornita sulla struttura e lo  svolgimento della filosofia italiana. 

Da notare anche la stretta interrelazione tra filosofia, medicina e astrologia nell'Italia medioevale e rinascimentale. Iniziamo dunque dal filone della filosofia naturale. Numerosi sono gli appartenenti a questa corrente di pensiero.  Simone Porzio, medico e filosofo, scrisse un De rerum naturalium principiis. Cesare Cremonini  tenne la cattedra di filosofia naturale  a Ferrara dal 1579 al 1589, e fu convinto assertore della mortalità dell'anima, legata indissolubilmente al corpo;  Jacopo Zabarella fu docente di filosofia naturale nell'Ateneo padovano. Apprezzato logico, scrisse il De naturalis scientiae constitutione e i De rebus naturalibus. Francesco Piccolomini fu docente di filosofia naturale all'Università di Padova. Ritiratosi dall'insegnamento, intraprese il tentativo di conciliare Platone ed Aristotele sul piano etico-politico. Ancora ricordiamo il cosentino Bernardino Telesio, critico della fisica aristotelica, che scrisse il trattato De rerum natura iuxta propria principia, contrapponendo alle argomentazioni aristoteliche la constatazione che gli unici due principi agenti in natura sono il caldo e il freddo.

Ma i maggiori esponenti di questo filone sono Pietro Pomponazzi, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Il primo fu filosofo e astrologo; ottenne la cattedra di filosofia naturale a Padova dopo la morte del suo maestro, Nicoletto Vernia. All'Università di Bologna, scrisse le sue opere principali: il De fato e il De naturalium effectuum causis sive de incantationibus. Il trattato De immortalitate animae fece scandalo, perché  conteneva la dottrina secondo la quale l'immortalità dell'anima non può essere dimostrata razionalmente. Pomponazzi influenzò anche le dottrine del pugliese Giulio Cesare Vanini, che condivise la sorte di Giordano Bruno, finendo arso vivo sul rogo. Esponente di spicco del naturalismo rinascimentale fu il nolano Giordano Bruno, la cui filosofia sincretica accoglie i più vari apporti, dal materialismo antico, all'averroismo, al neoplatonismo, all'ermetismo fino a suggestioni cabalistiche. La sua filosofia si basa sull'idea di infinito: Dio sarebbe un Tutto infinito, composto da infiniti mondi, da amare infinitamente. Naturalmente non vogliamo esporre in questa sede tutta la dottrina bruniana, ma vogliamo ricordare almeno la commedia il Candelaio, prova sicura degli interessi umanistici del Bruno. Filosofo, teologo e poeta fu Tommaso Campanella, calabrese nato a Stilo. Seguace di B. Telesio, manifestò questa adesione nell'opera Philosophia sensibus demonstrata, calandola però in una cornice ficiniana, per cui le leggi di natura non mantengono più la loro autonomia, ma sono inquadrate nella potenza creatrice di Dio, posizione ribadita nel De sensu rerum et magia. Il naturalismo di Campanella comporta una teoria della conoscenza sensistica, ma, rivalutando l'uomo, egli ammette l'esistenza di due tipi di conoscenza: una innata e una derivante dal mondo esterno.

Ma non possiamo abbandonare questa prima sezione senza ricordare tre grandi personalità: Girolamo Fracastoro, Girolamo Cardano e Giovanbattista Della Porta,  personificazioni dell'ideale rinascimentale dell' Homo universalis, versato in tutti i campi dello scibile.

Fracastoro fu un pensatore eclettico, medico ed astronomo, oltre che filosofo e fine umanista. Scrisse un trattato sulle sfere omocentriche, per cui è considerato precursore di Copernico. Anche Girolamo Cardano fu medico ed astrologo, oltre che valente matematico, ed insigne filosofo ed ingegnere. Infine Giovanbattista Della Porta fu un antesignano della rivoluzione scientifica, prima che Galileo salisse alla ribalta della storia per aver inventato il metodo sperimentale. Il Della Porta fu infatti uno scienziato e con lui ci sembra giusto finire la trattazione della prima sezione di questo breve scritto.

Dopo il filone filosofico-naturale, si sviluppa quello storico-giuridico, probabilmente il più originale della filosofia italiana, e il più vicino alla tradizione romana. Esso risale  al filosofo, storico e giurista napoletano Giambattista Vico, critico acerrimo del razionalismo cartesiano. Egli coniò l'espressione verum ipsum factum, la quale sta a significare che l'uomo può conoscere veramente solo ciò che crea. La sua opera più importante è la Scienza nuova (1725), con la quale tentò di organizzare a sistema le discipline umanistiche, in modo da spiegare i cicli storici delle società, dalla nascita alla decadenza. Altra opera di rilievo giuridico-antiquario è il De antiquissima italorum sapientia,  incentrato sulla convinzione che il linguaggio è pensiero oggettivizzato, e che dall'analisi delle etimologie si può risalire a forme di pensiero originali. Sempre di scuola meridionale sono Pietro Giannone, Vincenzo Cuoco, Francesco Maria Pagano e Gaetano Filangieri.

Gli interessi del Giannone non si limitano al diritto e alla filosofia, ma abbracciano pure la storia. L' opera Della storia civile del Regno di Napoli ebbe grande fortuna nei paesi protestanti dove fu tradotta e studiata. Adottando la tesi giurisdizionalistica, Giannone attribuisce tutti i mali del Regno di Napoli alla nefasta influenza della Curia romana. Di spiriti fortemente anticlericali è anche l'opera il Triregno, nel quale l'autore auspica addirittura la soppressione della Chiesa.

Vincenzo Cuoco, scrittore, storico e giurista, è ricordato soprattutto per l'opera Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, che offre un quadro vivace ed intelligente della cultura filosofica e politica napoletana, passando poi ad indagare le cause del fallimento della rivoluzione del 1799.

Francesco Maria Pagano, giurista, filosofo e letterato, fu giustiziato per il ruolo preminente avuto nella rivoluzione partenopea. Il suo pensiero è raccolto nei Saggi politici, un'opera di filosofia della storia.

Ma il pensatore più noto è Gaetano Filangieri, giurista e filosofo  del Regno di Napoli, noto soprattutto per la monumentale Scienza della legislazione. Composta da 8 volumi, l'opera si concentra sulla filosofia del diritto e sulla teoria della giurisprudenza, e si ricollega alla grande tradizione napoletana rappresentata da Giambattista Vico e Pietro Giannone, senza trascurare i contributi dei grandi filosofi europei, in particolare Rousseau e Montesquieu.

Spostandoci più su, nell'Italia centro-settentrionale, incontriamo l'interessante figura di Gian Domenico Romagnosi, giurista, filosofo ed economista. Scopo della sua opera fu quello di fondare una nuova scienza del diritto penale, pubblico ed amministrativo, sotto l'influsso delle idee dell'illuminismo, ed unificare le scienze giuridiche, naturali e morali. Egli auspica la nascita di una filosofia civile. che studi la legge dello sviluppo sociale, culturale e politico dei popoli. Non possiamo non notare in questo proposito l'influsso del Vico.

Altri autori di spicco sono Cesare Beccaria, autore del celeberrimo Dei delitti e delle pene, uno dei testi più noti dell'illuminismo europeo, che recepisce l'utilitarismo d'oltralpe, e il federalista Carlo Cattaneo.

In tutti questi autori rileviamo la commistione fra storia, politica e diritto, tratto peculiare della filosofia italiana, e possiamo ben affermare che caposcuola di tutti costoro fu il geniale Giambattista Vico.

Ultimo filone della filosofia italiana è quello "teologico", forse risalente a Sant' Anselmo d'Aosta. Ma la filosofia italiana si fa tradizionalmente iniziare con San Tommaso d'Aquino, autore delle cinque vie che dovrebbero dimostrare l'esistenza di Dio. Il che non comporta, per San Tommaso, che l'uomo possa giungere a capire anche la vera essenza di Dio. Questo è un passo ulteriore che l'uomo può compiere solo con l'ausilio della virtù. La Summa theologiae è  il trattato più importante in materia del Medioevo.

Passando al Rinascimento, si distinguono due figure di filosofi: Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Il primo, che fu un astrologo ed umanista, fu propugnatore della pia philosophia, attuata nel Cristianesimo, ma della quale l'umanità è sempre stata partecipe. Questa pia filosofia si contrappone alle correnti di pensiero atee e materialiste. Non a caso l'opera sua più importante è la Theologia platonica de immortalitate animarum, in 18 libri.

L'aspirazione di Giovanni Pico della Mirandola fu quella di realizzare una filosofia universale, unendo gli apporti di tutte le culture culminanti nella Rivelazione cristiana. L'intento era dunque lo stesso di Marsilio Ficino. Base di questo ideale di concordia universale è la dignità dell'uomo ( Oratio de hominis dignitate), che, unico fra tutte le creature, non ha natura predeterminata.

Facendo un salto di circa quattrocento anni, incontriamo la figura di Antonio Rosmini-Serbati, che avversò sia l'illuminismo sia il sensismo. Sul piano dei diritti della persona, affermò l'inalienabilità della proprietà, polemizzando contro il socialismo ed il comunismo. Seguì come maestri Platone, Sant' Agostino e San Tommaso.

A questo punto, mi pare evidente aggiungere un quarto filone alla filosofia italiana, costituito da tutti quei pensatori che ripresero e rielaborarono, con o senza originalità, teorie straniere. 

Degno di menzione è il calabrese Pasquale Galluppi, il cui merito principale fu quello di diffondere il kantismo in Italia. Più vivace intellettualmente fu Bertrando Spaventa, noto per la teoria della "circolarità europea del pensiero italiano", secondo la quale il pensiero europeo nasce col naturalismo e l'immanentismo rinascimentale italiano,   giungendo ad influenzare, attraverso Spinoza, l'idealismo tedesco. Il movimento di pensiero si conclude con il ritorno in Italia delle correnti spiritualistiche europee, per merito di Rosmini e Gioberti. E' probabile che ci sia del vero in questa dottrina; a me pare che pecchi di una certa ingenuità.

Roberto Ardigò si confrontò con il positivismo ed il razionalismo di Comte e Spencer, ma rifiutò lo spirito sistematico del positivismo, preferendo il metodo induttivo al metodo deduttivo e aprioristico.

Nel Novecento grandeggiano le figure di Croce, Gentile e Gramsci: i primi due impegnati nell'adattamento della filosofia hegeliana, il terzo propugnatore del marxismo,

Si potrebbero citare molti altri nomi, ma io preferisco finire qui questo arido elenco di opere e di filosofi. Piuttosto vorrei richiamare l'opinione di uno studioso che ha definito la filosofia italiana: "La filosofia italiana è sempre stata una filosofia dell'immanenza, della critica dei poteri e dei saperi, della concretezza storica e politica..." (C. Claverini, 2021). Ed io aggiungerei anche una filosofia a-sistematica, perché la realtà non è comprimibile in un sistema. 

 

Il significato del Tricolore italiano

Ora che siamo impratichiti con questi tre termini-concetti e soprattutto, ai fini del presente intervento, col fas, proverò ad affrontare il tema un po' spinoso del significato del Tricolore italiano, basandomi su degli indizi.

Personalmente non sono soddisfatto delle opinioni correnti che vedono nel bianco la fede cattolica, nel rosso il sangue dei martiri per la libertà, e nel verde la speranza. Indubbiamente il vessillo nazionale ha fatto la sua comparsa in epoca napoleonica e, ancor più, risorgimentale, ma il significato dei tre colori è probabilmente più antico, risalendo all'età romana, sia pure attraverso la mediazione della tradizione esoterica.

In un testo di Georges Dumezil (1987) ho letto che i tre colori della bandiera italiana corrispondono ad altrettante divinità romane. E precisamente: il bianco a Giove, il rosso a Marte e il verde a Venere. E' opportuno citare questo autore, il quale, a sua volta, si rifà allo scrittore bizantino  Giovanni Laurenzio Lido, di cui riporta un breve estratto del trattato I mesi : " Quando il popolo Romano fu diviso in tre parti, ognuna di queste...fu chiamata tribus. e i loro capi tribuni...Costoro dovevano vigilare affinché le corse si svolgessero correttamente...Tre carri e non quattro partecipavano alla corsa. Gli uni erano russati, cioè rossi, i secondi albati , cioè bianchi, gli altri uirides, cioè verdi...Consideravano quelli rossi come appartenenti a Marte, quelli bianchi a Giove, quelli verdi a Venere". Commenta Dumezil : "Giove, della triade primitiva "Giove Marte Quirino" è anche Dius...e Festo volendo definire la sua essenza a proposito dell' ordo sacerdotum, l'esprime con il termine dium, "parte del mondo situata sopra la terra", vicinissimo all'aer di Giovanni Lido...Solo in Giovanni Lido si ritrovano insieme l'affermazione che il sistema primitivo era a tre termini e subito dopo il triplice parallelo delle tre tribù, con i tre colori rosso-bianco-verde e con i tre dei funzionali Marte, Giove, Venere ( o Marte, Aria, Flora-Roma). La triade divina che appare qui è una chiara variante della tribù pre-capitolina, che esprime le tre funzioni". E' interessante notare la vicinanza tra le due triadi Giove-Marte-Quirino e quella, per così dire "circense", Marte-Giove-Venere. Quale la spiegazione ? Il bianco è associato all'aria, elemento neutro; il rosso all'impulso maschile ed il verde alla quiete femminile. Siamo in presenza di un costrutto teologico di una certa importanza: dall'incontro di due principi energetici, l'uno attivo e l'altro passivo, scaturisce uno stato neutro che non è né l'uno né l'altro dei due principi opposti e confliggenti. Cosa sia in realtà non è dato sapere; può essere tutto e il contrario di tutto, o forse non è che il grado zero dell'energia annichilita, cioè il nulla. Ma almeno possiamo ipotizzare l'antichissima risalenza del Tricolore italiano.

Ma cosa centra il fas ? Sappiamo che grammaticalmente esso è un neutro indeclinabile, e , come tale, indica una entità fissa, immutabile e sempre uguale a se stessa. In una parola, potrebbe corrispondere all'Essere, alla più profonda struttura del cosmo. E questa entità è neutra, indistinta, senza specificazioni certe e visibili, ma ottima meta d'arrivo per l'uomo che vuole essere giusto e saggio. Non dimentichiamo che Giove è il dio dell'ordine e della giustizia che, bendata, non può guardare né l'uno né l'altro dei contendenti. Ho già detto che il fas potrebbe essere riposto nelle associazioni religiose che comprendono almeno tre dei, fra i quali Giove gioca il ruolo chiave della neutralità, perno centrale della giustizia, e ,quindi, del diritto. Inutile dire che i Romani furono ben lungi, numerose volte, dall'essere neutrali e giusti, come del resto accade per tutti i popoli e per le singole persone. Il Tricolore pubblico del popolo italiano sventola vittorioso sui millenni ?

FAS, NATURA, DIVINITA', IUS

Per via di semplificazioni, siamo giunti al quadrinomio Fas, Natura. Divinità e  Ius. Ricapitoliamo aggiungendo ulteriori informazioni. Il fas è associato al mondo divino, poiché è detto dai Latini stessi Lex divina, che sarebbe l'ordine o l'equilibrio cosmico. Cosa sia questo ordine o equilibrio, proveremo a spiegarlo a suo tempo. 

La natura, sia essa giuridificata o semplicemente fisica, rimanda a sua volta al mondo divino, perché, come pensavano i Romani, essa era animata da presenze o numina o a forze attive che l'animavano. A proposito c'è da notare il persistente aniconismo, ossia la tendenza dei Romani più antichi a non rappresentare in forma umana le loro divinità. Sarà più tardi l'interpretatio romana a compiere questa operazione prendendo a modello gli dei greci. In sostanza, la natura appare impregnata di entità divine, simboli non solo di elementi naturali, ma anche di realtà umane. Ciò è particolarmente evidente nel ius publicum, mentre il ius privatum, nonostante contenga elementi sacri, risulta più incentrato sulla utilità pratica. Il calendario romano contiene, oltre alle festività dedicate alle varie divinità, anche elementi di "cosmologia", che si possono enucleare dalla spiegazione del significato delle deità stesse.

Il ius, è associato all'uomo: da un certo punto di vista si può dire che è l'uomo stesso. L'uomo anela a unirsi alla legge divina, e per fare questo attua una serie di riti o cerimonie, come la presa degli auspici. Il diritto è diviso in due grandi rami: il ius humanum, regolante i rapporti fra gli uomini, e lo ius divinum, regolante i rapporti fra gli uomini e le divinità. Peraltro, i Romani non hanno mai dato a tale distinzione il valore di una classificazione.

Il diritto è unico: ius naturale, ius gentium, ius civile e ius praetorium, con le loro norme, confluiscono in un sistema, che accetta le differenze ma al contempo opera una reductio ad unum.

In sostanza, possiamo dire, a mo' di conclusione provvisoria, che le componenti del trinomio appaiono strettamente collegate alla dimensione religiosa.

FAS

Innumerevoli sono le dispute sulla etimologia di questo monosillabo neutro di antichissima origine. C'è chi l'ha ricollegato alla radice indoeuropea dha, col significato di "porre", "costituire". In questo caso il fas sarebbe l'omologo latino di Thémis, la dea greca dell'equilibrio cosmico, come già affermavano i Latini. La radice sarebbe la stessa del verbo greco thìthemi, che significa appunto "costituire". Ma altri studiosi preferiscono la radice bha, la stessa del verbo greco phemì (dire); latino fari. In tal caso il fas non sarebbe altro che la "parola di Dio". 

L'origine etimologica di fas potrebbe essere un groviglio di radici indoeuropee. Infatti, dice F. Rendich: (2010) " La derivazione di fas dalla radice dha ha una valida giustificazione etimologica perché "porre" [ dha] un "fuoco sacro" [dhaman] per gli indoeuropei era l'atto di "fondazione" [dha] sulla terra delle norme divine. Ma anche voler ricavare fas dalla radice bhas "splendere" pare a me una scelta etimologicamente altrettanto corretta, data l'equivalenza indoeuropea tra "luce" e "parola come legge divina" e vista la presenza in bhas della s finale di fas..."  Io preferisco la prima etimologia, nel significato di "ciò che è posto", o  in quello di "dare fondamento". A che cosa? naturalmente al ius, come dice lo storico delle religioni Georges Dumézil, secondo il quale il fas sarebbe il "fondamento mistico di lassù", la base del diritto. Ad opinione dello studioso, checché se ne dica o se ne sia detto, il fas è un termine-concetto ben distinto da ius:  secondo me non siamo in presenza di due sistemi di norme alternativi e concorrenti. I negozi sacri che non pochi studiosi (tra cui Contardo Ferrini) attribuivano al fas, (come il votum, la sepultura, l'evocatio e la confarreatio) sono in realtà da riferirsi al ius divinum o al ius sacrum. Semmai si può dire che il ius divinum ( l'insieme di regole che disciplinavano i rapporti fra gli uomini e gli dei), attinge il fas, ma da questo è ben distinto.

E' mia convinzione che il fas, che Plinio il Giovane chiamava publicum, sia da rintracciare nei costrutti religiosi dei primi secoli di Roma, come la Triade regia Marte-Giove-Quirino o quella patrizia Giove-Giunone-Minerva, o in numerose altre associazioni di dei partorite dalla fervida immaginazione dei Romani.

NATURA

Come sappiamo, il termine natura ha, nella cultura romana, due significati: uno giuridico e l'altro fisico, come è nel poema De rerum natura di Lucrezio o come può essere in alcune sezioni della monumentale Naturalis Historia di Plinio il Vecchio; ricordiamo anche l'opera di Seneca Quaestiones naturales, che tratta di meteorologia, il suo perduto trattato De forma mundi, e le opere parimenti perdute del naturalista Papirio Fabiano. Nel primo significato, la natura è considerata da un punto di vista strettamente giuridico: valgono le leggi umane, non quelle fisiche. Inizio col dire che, secondo i giuristi, natura equivale a normalità, regolarità, modo di essere. La locuzione rerum natura sta ad esprimere la natura in tutta la sua potenzialità creatrice di frutti utilizzabili dagli uomini.

Così troviamo nei testi giuridici classici le espressioni natura actionis, natura contractus, che alludono rispettivamente al modo di essere di una azione, di un contratto, ma anche quelle di natura fluminis, natura aggeris, natura montis, che richiamano le peculiarità fisiche di un fiume, di un terrapieno o di una montagna. Si trovano anche espressioni come ius naturae, lex naturalis e ratio naturalis, che non indica una mente universale ma un semplice calcolo fatto dall'uomo. 

Nella letteratura non tecnica troviamo l'espressione natura rerum publicarum, che rende l'idea del modo di essere delle questioni pubbliche.

Secondo Yan Thomas (Y. Thomas, 2020), "...per i giuristi non c'è altra natura che quella da essi stessi creata". Ciò è dovuto, a mio avviso, principalmente al fatto che per i giuristi non c'è una cesura netta tra ius naturale e i diritti "positivi" (ius gentium e ius civile), ma tutti formano un "blocco unico" e coeso. Così il diritto naturale (che secondo Ulpiano era comune ad uomini e animali), superato dal diritto di formazione umana, viene non raramente "positivizzato" ed applicato, ma sempre viene correlato agli altri nuclei normativi. Solo a questo patto si può parlare di "giuridificazione" della natura.

 

IUS

Esamino ora la parola ius (diritto), tenendo presente che ius = (mos + lex + factum + ritus + res). Come sappiamo anche la natura ha a che vedere col diritto, e si tratta di una natura per dir così "giuridicizzata". Ne tratteremo a suo luogo.

Il monosillabo ius è un neutro declinabile, espressione di una tavola di valori, quella umana, relativistica e soggettivistica. Vivace è stato, ed è, il dibattito in dottrina sulla etimologia del termine. Si è pensato di ricollegarlo al verbo ire (andare), ma oggi è persuasiva la tesi (F. Rendich, 2010), secondo la quale il latino ius deriva dalla radice iu (yu), che indica "unione religiosa", "unione con la legge divina". E' interessante notare, a questo proposito, la differenza di mentalità che sta alla base dell' indiano yoga e del latino ius. Mentre nel primo caso l'unione è mistica, ossia si realizza attraverso un atto di astrazione mentale, nel secondo, essa non disdegna elementi utilitari (commodum, utilitas) e quindi concreti.

Tipica della dottrina romanistica tedesca (e non solo), è la teoria dell' "Isolierung", ovvero dell'isolamento del diritto dalle altre regole della vita associata (morale, religione), per la quale il diritto sarebbe un complesso di regole fondato sulla coattività e sul principio di effettività. Ad es. è stato affermato che il diritto romano "... fu il primo diritto interamente formale nella storia umana...capace...di mettere in campo un disciplinamento sociale separato e autonomo rispetto a quelli della politica, della religione, dell'etica." (A. Schiavone, 2024). Non è mancato chi ha vigorosamente oppugnato questa visuale. Secondo alcuni (P. Catalano, 2011), il ius romanum ricomprenderebbe giustizia, morale e religione, e sarebbe quindi una visione umanistica alquanto ampia. Ma questi sono temi che andremo via via dipanando in prosieguo di tempo. 

Sarebbe un gravissimo errore identificare il ius con l'utilitas: questa ne è l'oggetto non l'essenza. Nelle fonti giuridiche classiche e postclassiche è tutto un parlare di utilitas publica, utilitas privata, ratio utilitatis ecc,: questo perché la materia dei rapporti umani è costituita da interessi utilitari, che il diritto ha il preciso compito di disciplinare.

Ricordo che il ius civile comprende sia il ius privatum, sia il ius publicum.

 - Mos

Il termine deriva dall' indoeuropeo mus, "comportarsi con misura" (F. Rendich, 2010), da cui i significati  "morale", "costume", "consuetudine", "modello di comportamento". I mores maiorum, nell'antichissima cultura romana, appartenevano alla sfera del sacro e riguardavano le cerimonie degli dei immortali. In progresso di tempo, si vennero formando dei mores laici, soprattutto nell'ambito del diritto pubblico, regolanti il rapporto fiduciario tra il magistrato e la comunità. 

Secondo Marco Fabio Quintiliano, retore del I sec. D.C., il ius è composto in parte da leges, e in parte, e soprattutto, da mores.

 - Lex

Il termine nasce dalla radice sanscrita lag, nel significato di "legare", "collegare" (F. Rendich, 2010): " Il significato originario della parola lex, "legge" nasce nel vasto ambito semantico della radice lag e potrebbe quindi essere sia "raccolta di norme", sia "legame contrattuale garantito dal diritto", o anche "dire ciò che è giusto e conveniente per tutti" ".

Nella storia del diritto romano, l'istituto della lex è legato soprattutto al diritto pubblico perché rivolto a servire gli interessi delle grandi masse popolari, principali utenti del diritto pubblico.( ius legibus publicis introductum), di contro al ius, tradizionalmente orale, e strumento degli interessi delle classi agiate. La lex si afferma quindi successivamente al ius, come garanzia delle aspettative giuridiche delle classi popolari.

Non mancano, nelle fonti, casi di leges privatae.

 - Factum

Il factum (da facio, fare) rappresenta l'evento, ed allude al "movimento" del diritto. il famoso brocardo ex facto oritur ius, non è romano, ma sarebbe stato sottoscritto dai giuristi romani. Fa il paio con l'altra massima: da mihi factum, dabo tibi ius

Come si può notare, il fatto non è il diritto, ma ne è l'imprescindibile fondamento.

 - Ritus

Il vocabolo è collegabile al sanscrito rta che vale "ordine", "legge", "regola" ( F. Rendich, 2010). Infatti il latino ritus è traducibile come "ordinanza", "regola", "rito". La religione romana è stata definita come "ortoprassia", ovvero come un procedere negli atti religiosi correttamente, in modo ritualmente perfetto, e questo vale anche per il diritto, vista la sua stretta correlazione con la religione.

 - Res

Il termine ha una valenza semantica vastissima. Innanzitutto è ricollegabile all' indoeuropeo ra, che indica l'azione di "entrare in possesso", "acquisire", da cui il latino res, "cosa", "bene", "patrimonio". L' italiano "cosa" deriva invece da "causa". Il significato di res come ente è proprio del latino medioevale.

Unito a sostantivi come ordo e natura può significare la totalità delle cose, il Tutto: ordo rerum, natura rerum. Secondo il romanista Riccardo Orestano, (R. Orestano, 1968), il termine significa non solo la cosa singola, ma anche svariate "situazioni unificate",  insiemi di più cose aventi natura diversa ma finalizzate al raggiungimento di uno scopo comune: "situazione processuale" o "procedimento giudiziario". L'Orestano fa inoltre l'esempio della res privata, l'insieme dei beni appartenenti a un singolo, e della res publica , sintesi di valori spirituali e materiali, che va oltre l'aspetto puramente crematistico. In questi casi res è nome collettivo. Ma possiamo fare anche gli esempi di Res romana, Res albana, Res etrusca e via dicendo. Anche la problematica del nomen si riconnette a questa prospettiva.

Nel diritto privato si nota, nella definizione dello schiavo, una oscillazione fra res e persona: evidente ciò è dovuto ai diversi punti di vista da cui poteva essere considerato il servo: per ius naturale, persona; per ius gentium o civile res.

 

DEI

In questa sede non si  vuole certo offrire una panoramica completa del culto ufficiale tradizionale romano, esaminando una per una tutte le figure delle Divinità. Basti anticipare che, a nostro avviso, gli Dei non rappresentano altro che la quintessenza dei fenomeni naturali ed umani. 

Informazioni sul blog

Benvenuti nel blog di culturaromanoitaliana.com! Qui esploreremo le intricate connessioni tra la cultura romana e quella italiana, offrendo una prospettiva informativa e stimolante.

Introduzione alla filosofia romana.

Vorrei soffermarmi sul contributo originale dato da Roma e dall'Italia alla conoscenza delle cose umane e divine, senza considerare quindi la tradizione ebraico-cristiana. Quando si parla di filosofia romana, generalmente si parla di tre autori che hanno recepito ciascuno una scuola filosofica greca: Lucrezio (epicureismo); Cicerone ( platonismo) e Seneca figlio (stoicismo). L'elenco si potrebbe allungare, citando altri filosofi, come Quinto Sesto, Musonio Rufo, Anneo Cornuto e Marco Aurelio, ma è chiaro che ci troveremmo sempre nell'orbita culturale greca.

In realtà, la vera filosofia romana è frutto di generazioni che l'hanno elaborata anonimamente nel corso dei millenni, amalgamando elementi provenienti non solo dall'area greca, ma anche da quella etrusca e da quella italica.

La cultura romana ci offre alcuni termini-concetti che, a mio avviso, vanno studiati non solo partitamente, ma anche nelle loro reciproche interrelazioni. 

Tali termini sono essenzialmente: Dii ,ius, fas, natura, res, mos, factum, lex e ritus. Come procedendo in una operazione algebrica, possiamo depennare res, factum, lex, mos e ritus, siccome rientranti nel dominio del ius, ovvero del diritto. Sul concetto di natura, bisogna distinguere: esiste una natura "istituzione giuridica" ed una natura in senso generico, ossia intesa come mondo fisico: del primo concetto se ne occupano naturalmente i giuristi. Di conseguenza, il significato natura è bicipite; ma questo è un argomento che tratteremo, insieme a tanti altri, più oltre.

Qui preme rilevare il carattere collettivo, quasi massivo, di questo patrimonio culturale: esso va riferito all'intero popolo romano e non quindi a singoli nomi, come accade per la filosofia greca o di altre nazioni. 

Vedremo in seguito quali possono essere gli sviluppi di una tale tradizione, anche sul piano moderno; ma prima dovremo analizzare singolarmente i termini-concetti che abbiamo elencato all'inizio di questo scritto.

 

Edoardo Igini

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